I FIUMI Mi tengo a quest'albero mutilato abbandonato in questa dolina che ha il languore di un circo prima o dopo lo spettacolo e guardo il passaggio quieto delle nuvole sulla luna
Questo è il celebre incipit della poesia I fiumi, di Giuseppe Ungaretti, scritta il 16 agosto del 1916, a Cotici, in uno scenario notturno, durante una pausa fra i combattimenti della Prima guerra mondiale.
Il componimento ha una spiccata connotazione autobiografica, espressa in ampie sequenze narrative scandite dalla rievocazione dei quattro fiumi che hanno plasmato forma e carattere del poeta: Nilo, Serchio, Senna e Isonzo. Oggi tuttavia vorrei concentrare l’attenzione su questa prima strofa.
Dunque, una pausa: non c’è riposo, tanto meno pace, solo un’infinita passione tesa fino allo stremo. In cielo campeggia una Luna indifferente di ascendenza leopardiana, intanto che sulla terra si consumano i drammi e i destini dell’uomo; su di lei, seguendo il testo, vediamo scorrere con vivida chiarezza evocativa nuvole quiete, con il loro alone argenteo, la consistenza lattiginosa e forse un’aura di vaga inquietudine.
Sintatticamente, la prima strofa è incardinata su due verbi: mi tengo… e guardo. Il dettaglio di quanto ruota intorno sembra del tutto secondario, e in un certo senso lo è davvero, ma acquisterà peso e misura determinante nelle strofe seguenti, ove il poeta racconterà il suo percorso di formazione e di acquisizione di una nuova consapevolezza di sé.
Ma fin qua? Ungaretti si tiene aggrappato a un albero martoriato, cresciuto dalle ripide pendici di una dolina; è un albero mutilato – come lo sono molti dei suoi compagni d’armi, falciati inesorabilmente dalle micidiali raffiche delle mitragliatrici, dalle schegge roventi e affilate delle granate esplose – eppure ancora si regge in piedi. Il poeta deve tenersi stretto ad esso per non scivolare in fondo a quella tipica formazione carsica, dove potrebbe esservi un inghiottitoio nel quale le acque di superficie precipitano nelle viscere del terra. Quanta parte della vita di Ungaretti è già là sotto, dove riemergerà, in che forma? Sono gli insondabili enigmi celati nel misterioso approdo del Porto sepolto.
In quella dolina, dove forse fino a poche ore prima si è combattuto corpo a corpo, è necessario afferrare con tutte le forze un appiglio, affondare le dita come radici nella terra, fra i sassi. Ungaretti esprime sovente il bisogno di sentire questo contatto confortante e solido: qui come in Sono una creatura, dove la roccia del San Michele, sebbene arida e refrattaria, quasi tagliente, costituisce comunque un’ancora di salvezza. L’alternativa è una caduta senza controllo nell’abisso della guerra, della follia.
La dolina notturna ha il languore di un circo prima o dopo lo spettacolo: è l’opprimente percezione sprigionata dallo spazio vuoto, deserto, sovrastante, è la solitudine del poeta e dell’albero, attorniati da ostilità e morte. È paragonata al circo, luogo che condensa sentimenti tanto diversi: amato e odiato, si accende per lo spettacolo e allora tutto sembra sospeso nell’aura magica della festa, dei colori, della musica, dell’impresa eccezionale. Infine tutti se ne vanno, la pista si svuota, e chi rimane? Sul Carso si va in scena armati, si accendono i riflettori e i bengala a illuminare le trincee nemiche e la “terra di nessuno”, non meno degli acrobati (parola sapientemente scelta da Ungaretti per descriversi, poco più avanti) ci si esibisce in salti e capriole, al ritmo delle esplosioni: il premio non sono gli applausi ma la sopravvivenza. Infine anche qui, sebbene incredibilmente, cala il silenzio, le grida dei feriti cessano e rimane solo una luce argentata, chiazzata di nubi, sulla dolina notturna.

Le notti di guerra ungarettiane sono interminabili, dolorose, incerte, così come la Luna è un’insensibile e talvolta crudele compagna. Nella celebre poesia Fratelli la notte è densa di pericoli ma potente fonte di sentimenti ed emozioni nuove e forse pericolose, come il timido riaccendersi di una fragile speranza; in Veglia la notte trascorre alla presenza della morte, accanto a un compagno “massacrato”, e nel più splendente plenilunio si enfatizzano i caratteri più orridi del soldato esanime e straziato; e questo stesso assistere al dolore e alla sofferenza si amplifica nella poesia In dormiveglia, nella quale il poeta assiste alla notte stessa, violentata, crivellata dalle fucilate e innalzata a simbolo della delirante corsa verso la distruzione. Solo in un caso, forse, la Luna e la notte hanno un vero potere lenitivo: nella poesia C’era una volta, ma si tratta solo di un sogno destinato a svanire presto, non appena il poeta, appisolato, tornerà alla realtà.
E guardo… Ungaretti rivendica la consapevolezza della sua azione: il verbo guardare presuppone intenzionalità, volontà e desiderio. In uno scenario come quello della vita al fronte in prossimità del nemico, vedere per primo può significare la differenza fra vivere o morire, eppure il poeta non cerca nemici: guarda la Luna. Una rievocazione di Ciaula e del suo stupore? In realtà c’è molto di più. Ciò che colpisce l’attenzione di Ungaretti non è la Luna bensì le nuvole che le scorrono davanti: è questo l’elemento simbolico che apre su un mondo diverso, è il mondo dei ricordi che iniziano a fluire copiosamente… nei fiumi della sua vita.
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