Giuseppe Ungaretti ha mostrato nelle sue poesie un atteggiamento bivalente nei confronti della solitudine: pur riservandosi momenti di raccoglimento personale, indispensabili per ritrovare un equilibrio tra sé e il mondo, non poteva fare a meno della presenza di suoi simili, ancora di più durante gli anni della Grande Guerra. Uomini di lettere suoi contemporanei si focalizzarono contro la società del tempo e contro la sua invincibile capacità di travolgere il singolo, cercando di resistere; eppure il poeta alessandrino, come scriveva nella poesia I fiumi, era disposto a lasciarsi levigare dall’Isonzo come esso faceva per tutti gli altri suoi sassi, togliendo via ogni asperità, ogni spigolo che fosse d’intralcio; sembra che quasi volesse ricacciare via da sé tutto quanto avrebbe potuto identificarlo e additarlo come diverso nella massa. Aveva evidentemente il bisogno di sapere che il dramma che stava vivendo non era solo suo e credere che nella precarietà della vita e dei suoi rapporti potesse trovare un appoggio sicuro negli altri, o almeno nel loro ricordo.
Alla luce di questa premessa non è certamente un caso che una delle sue più cupe e drammatiche poesie sia proprio intitolata Solitudine; e in essa prendono forma le più terrificanti angosce del poeta.
Solitudine
Ma le mie urla
feriscono
come fulmini
la campana fioca
del cielo
Sprofondano
impaurite
(Santa Maria la Longa, il 26 gennaio 1917)
Ho già trattato alcuni argomenti di questa poesia nell’articolo Solitudine e Mattina, di Giuseppe Ungaretti, al quale rimando. Vediamone altri.
Leggendo questi versi ci troviamo proiettati sull’orlo di un abisso, una bocca spalancata, senz’atra via di uscita né luce alcuna; la percezione delle distanze si sfoca e a poco a poco attorno si percepisce soltanto il vuoto che tutto inghiotte. Ungaretti non ci fa conoscere l’origine della sua disperazione se non per quanto espresso nel titolo della poesia, e non è poco; la sua reazione alla solitudine si libera in modo istintivo e selvaggio con un grido contro il cielo, rappresentato come una fioca campana che non protegge ma piuttosto deflette il suono e la luce. Inizialmente sembra farsi strada l’illusione che le urla del poeta possano aver prodotto un effetto, una ferita, come se anche Ungaretti fosse riuscito a lacerare il pirandelliano velo di carta del cielo evocato ne Il fu Mattia Pascal e vedere oltre (vedi: Il “Cielo di carta”. Oltre il mondo visibile nelle opere di Pirandello e Montale). Ma è solo un’illusione: la natura si dimostra ancora una volta pronta a rimediare alla ribellione soffocando quelle grida, assorbendone tutta la forza disperata fino a lasciarle atterrite, sprofondate, annientate, e per di più coscienti del proprio fallimento. Di verso in verso la poesia pare quindi rallentare, affievolirsi, accucciarsi come una preda, e infine rannicchiarsi in un angolo in attesa che accada qualcosa.
Momenti di raccoglimento
In altre circostanze troviamo il poeta ricercare tranquillità e riposo: ha bisogno di appartarsi, quasi sentirsi dimenticato. Al fronte non c’è mai spazio né tempo per sé: tutto è condiviso, tutto è promiscuo, l’individualismo stesso è considerato nocivo allo spirito di corpo e al cameratismo che si richiede ai soldati e quindi va contrastato. Finalmente, in occasione del suo secondo Natale da soldato, Ungaretti ottiene una licenza, durante la quale si reca a Napoli, ospite presso l’amico Gherardo Marone e in quella circostanza compone questi versi:
Natale
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare
(Napoli, il 26 dicembre 1916)
Calore, sicurezza e quiete. Più o meno un anno prima (era il 23 dicembre 1915) la realtà era ben diversa e Ungaretti, nel fango congelato della trincea, componeva la poesia Veglia, un capolavoro inestimabile, alla presenza di un compagno caduto; mi risulta molto improbabile che davanti al focolare il poeta non sia tornato col ricordo a quella notte. Comprensibile quindi il suo desiderio di estraniarsi e di ritirarsi in un angolo, quasi per evitare di toccare il corpo del compagno, come se l’avesse di nuovo davanti, materializzato dai suoi ricordi.
Tornato da tempo al suo battaglione, nella primavera successiva, era il maggio del 1916, cogliamo nei versi di Ungaretti il desiderio di dilatarsi e fondersi col tutto, come nella poesia Stasera. Cerchiamo di capire.
Stasera
Balaustrata di brezza
per appoggiare stasera
la mia malinconia
(Versa, il 22 maggio 1916)
Se le confrontiamo, Natale e Stasera sono diversissime, anche formalmente. Nella seconda sembra che Ungaretti sia perfettamente in sintonia con la natura e il paesaggio: i versi sono distesi e sinfonici, dal ritmo pacato, si sente l’aria fresca della sera attraversarli. In Natale, al contrario, la tensione dei versicoli è evidente, si percepisce il desiderio di ritirare tutti i ponti e barricarsi in poco spazio e in un isolamento malato, un presagio di quanto comporrà appena un mese dopo, proprio della poesia Solitudine. Del resto, è la medesima duplice visione che possiamo leggere confrontando il quieto assopirsi, sprofondato nella poltrona di un “caffè remoto” parigino della poesia C’era una volta e lo stanco ripiegarsi nell’angolo del focolare di Natale, come “una cosa” dimenticata. Il poeta rifugge il “gomitolo” chiassoso e frastornante delle strade natalizie per raggomitolarsi in sé, senza luci se non quella strettamente necessaria, tremolante, del fuoco nel caminetto. Apparentemente la conclusione della poesia è pacata e piacevole, il “caldo buono”
Si potrebbero trovare numerosi altri spunti di confronto e antitesi ma il risultato sarebbe probabilmente il medesimo: Ungaretti ha bisogno del prossimo, ne è costantemente alla ricerca, ma al tempo stesso non può fare a meno di momenti di raccoglimento durante i quali estraniarsi, quasi lasciarsi trasportare via con l’immaginazione, come nella brezza serale di Versa o nelle luminose distanze del deserto che un po’ ovunque riaffiorano dal suo passato fatto di memorie potenti. E questa è una condizione che ognuno di noi può sperimentare quotidianamente.
Alla fine, sempre e comunque, davanti a ogni bivio, passo incerto o titubanza esternata dal poeta, e di riflesso nella nostra storia personale, torno sempre con la mente a quello che ho sempre ritenuto il centro assoluto di gravità della poetica del primo Ungaretti, nella poesia I fiumi:
Il mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia
Link e riferimenti utili per approfondire ulteriori confronti e approfondimenti si veda anche: C’era una volta, di Giuseppe Ungaretti
Solitudine e Mattina, di Giuseppe Ungaretti
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