C’era una volta
(Quota Centoquarantuno, l’1 agosto 1916)
Bosco cappuccio
ha un declivio
di velluto verde
come una dolce
poltrona
Appisolarmi là
solo
in un caffè remoto
con una luce fievole
come questa
di questa luna
Spesso, curiosando fra i commenti di questo delicato componimento, si legge come Ungaretti nell’orrore della guerra che combatteva sul Monte San Michele, sulle cui pendici si trova Bosco Cappuccio, abbia voluto ritagliarsi un momento di sospensione, un rapimento lontano da spari, sangue, morte e sofferenza. Del resto l’autore ci ha dato altri saggi di questa abilità evocatrice, come ad esempio nella poesia:
Stasera
Balaustrata di brezza
per appoggiare stasera
la mia malinconia
Versa, il 22 maggio 1916
scritta, come si legge, pochi mesi prima di C’era una volta. L’ipotesi quindi è più che plausibile ma mi domando fino a quale punto sia esauriente. Proviamo allora a indagare.
È evidente l’incipit fiabesco: C’era una volta. Premesso che le poesie di Giuseppe Ungaretti non possono in alcuno modo essere private del loro titolo che ne costituisce parte integrante ed essenziale, tessuto nel tessuto, questo titolo non solo prepara il lettore a una dimensione quasi onirica ma apre chiaramente a una dimensione narrativa: ci si attende un racconto, e per l’appunto come spesso accade le ambientazioni delle fiabe e dei racconti sono nei boschi. Ma questa poesia non è un racconto per bambini eppure Ungaretti lascia che ci inganniamo a pensarlo. Bosco Cappuccio ha un declivio di velluto verde, non il fango delle trincee, come realmente era, non la pietra dura del San Michele ma soffice velluto come quello di una confortevole poltrona. Lo straordinario correlativo riavvolge il nastro della memoria fino al caffè parigino dove, sprofondato in altrettanto morbide poltrone, amava incontrarsi con l’amico suicida Moammed Sceab, al quale dedicherà da qui a poco In memoria (Locvizza, il 30 settembre 1916) ed altri eminenti letterati del tempo. È lo stesso Ungaretti a informarcene, nella nota alla poesia dell’edizione del Porto sepolto: “Allude a uno di quei caffè frequentati dai miei amici che facevano la rivista neoellenica ‘Grammata’ e dove andavamo Sceab e io a sorbirci il serale yogourth”.
Ungaretti però adesso manifesta l’incombente necessità di solitudine e di distacco, di intimità, di ritagliare uno spazio che sia soltanto suo. Quale miglior modo se non estraniarsi immaginando di appartarsi in un angolo remoto, in penombra, tornando ai luoghi e ai tempi pacifici e fecondi dei caffè parigini?
Ma tutto questo non è possibile: contatto, promiscuità, invasione dello spazio personale è la ‘naturale’ condizione di chi si trova in guerra e in particolare nella guerra in trincea; al soldato non appartiene più nemmeno il proprio corpo perché adesso è la Patria che ne dispone totalmente. Potremmo aggiungere che perfino lo spirito è violato poiché la stessa Patria esige dedizione assoluta.
Ma è il momento di tornare al quesito iniziale: questa poesia costituisce realmente un segmento di evasione dagli orrori della guerra? Il 27 giugno alcuni reparti della brigata Brescia ricevettero l’ordine di scendere a Mariano per il consueto avvicendamento e riposo, in modo da preparare l’arrivo del resto della brigata e fra questi fortunati ci fu Giuseppe Ungaretti. Il 29, alle 5.30 del mattino, le trincee italiane più in quota del San Michele fino a Bosco Cappuccio furono investite da nuvole di gas iprite. Rimasero uccisi 6428 soldati, oltre a un numero imprecisato di invalidi permanenti a causa dell’intossicazione. L’attacco in sé e la successiva spedizione austriaca per finire i moribondi a mazzate suscitò grandissima riprovazione e condanne ma ormai anche quel confine era stato varcato.
Credo che sia chiaro a questo punto che la guerra non ha mai allentato il suo morso da questa poesia, al contrario sono sempre più convinto che il titolo voglia portare ben in evidenza che l’allusione non è riferita a un mondo fiabesco e di fantasia ma piuttosto la traumatica e disincantata presa di coscienza di questa nuova guerra e dei suoi metodi spietati. In quest’ottica la poesia assume un carattere tragico che sembra quasi vanificare la fragile speranza evocata appena quindici giorni prima nella poesia Fratelli per spalancarsi piuttosto nell’indicile dolore del capolavoro assoluto:
Solitudine
Santa Maria la Longa il 26 gennaio 1917
Ma le mie urla
feriscono
come fulmini
la campana fioca
del cielo
Sprofondano
impaurite
Ne riparleremo…
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