La poesia Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale fa parte di Ossi di seppia ed è il settimo “movimento” della raccolta Mediterraneo della quale, in queste pagine, abbiamo già letto il sesto, ovvero la stupenda Noi non sappiamo quale sortiremo e della quale questa ne è per molti versi l’antitesi, se non addirittura nemesi. Leggiamola:
Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
siccome i ciottoli che tu volvi,
mangiati dalla salsedine;
scheggia fuori del tempo, testimone
di una volontà fredda che non passa.
Altro fui: uomo intento che riguarda
in sé, in altrui, il bollore
della vita fugace - uomo che tarda
all'atto, che nessuno, poi, distrugge.
Volli cercare il male
che tarla il mondo, la piccola stortura
d’una leva che arresta
l’ordegno universale; e tutti vidi
gli eventi del minuto
come pronti a disgiung ersi in un crollo.
Seguìto il solco d’un sentiero m’ebbi
l’opposto in cuore, col suo invito; e forse
m’occorreva il coltello che recide,
la mente che decide e si determina.
Altri libri occorrevano
a me, non la tua pagina rombante.
Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli
ancora i groppi interni col tuo canto.
Il tuo delirio sale agli astri ormai.
Ancora una volta il grande interlocutore di Montale è il mare, col quale sembra condividere quasi ogni attimo della propria esistenza e a lui sembrano ricondurre tutte le vie percorse dal poeta. Ma procediamo con ordine.
La prima immagine, particolarmente adeguata agli Ossi di seppia per le sue suggestioni fatte di consunzione e abbandono, mi riporta in realtà ad una celebre immagine ungarettiana, ovvero i ciottoli levigati dall’Isonzo col suo incessante scorrere della poesia I fiumi. Là, Ungaretti si adagia nell’acqua proprio perché il fiume tolga via ogni sua asperità, ogni spigolo, in altre parole tutto ciò che gli impedisce di sentirsi in armonia con l’universo. Qua, l’essenzialità evocata da Montale non si distanzia molto ma evoca un contesto di immagini diametralmente opposte a quello del poeta alessandrino. Mentre Ungaretti cercava l’armonia fino a darsene un tormento, Montale qui sembra piuttosto ricercare attraverso una rugosa essenzialità la separazione e il distacco da tutto quanto lo circonda, una sorta di rifiuto di un mondo al quale sente di non appartenere.
Si intuisce come questo componimento (con un procedimento non dissimile da Non chiederci la parola) proceda per sottrazioni e negazioni successive, sempre più profonde e in certo qual modo sconcertanti. Sembra mancare il correlativo oggettivo tanto caro al poeta ligure, ovvero la capacità di evocare emozioni e sentimenti attraverso un oggetto che in qualche maniera ne sia il catalizzatore e il veicolo; ma c’è di più: verso dopo verso, Montale si addentra in una retrospettiva autobiografica, evidenziando tutti i falliti tentativi di trovare un senso alla propria esistenza. Su questo tortuoso sentiero si ritrovano i temi tipici della sua poesia, iniziando proprio dal “bollore \ della vita fugace”, ovvero dalla rapidità travolgente con la quale la nostra vita trascorre mentre siamo catturati, distratti e sviati dalle mille futili distrazioni di “chi crede \ che la realtà sia quella che si vede”, come scriverà in Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale.
Poi Montale si concentra sul male del mondo, ovvero il male di vivere, che riassume l’essenzialità profonda e ultima del suo pessimismo, si concentra sulla speranza di trovare il punto giusto su cui fare leva per scardinarne il sistema (quanti echi ritornano dalla poesia I limoni: “il punto morto del mondo, l’anello che non tiene”). Non solo: appena un anno prima (era il 1923), Svevo pubblicava il romanzo La coscienza di Zeno, concludendolo con l’iperbolica visione del folle e “occhialuto uomo”, circondato da ordigni di ogni tipo per sostentarsi, scampando così alla selezione naturale che l’avrebbe da tempo cancellato; costui si arrampicherà nel luogo dove massimizzare il potenziale distruttivo di un “esplosivo incomparabile” e “ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”
Montale scrisse parole di grande ammirazione per Svevo e ne ereditò, a quanto pare, ispirazione e concetti, come questo ordegno universale e il modo per arrestarlo, ovvero bloccare il mondo e il suo male (la malattia per Svevo).
Ma il poeta denuncia la sua mancanza di energia al momento del bisogno, di fiducia nel fare, rimpiange la mancata opportunità di un coltello che abbia reciso di netto ogni tentennamento, di una mente decisiva (altre sottrazioni, altri correlativi mancati). Già l’argomento era stato toccato sempre ne I limoni; in essa il poeta aveva riversato tutte le sue energie in una ricerca folle, nel tentativo di violare i segreti della natura e scoprire i segreti celati dietro gli schermi, così come descritti in Forse un mattino andando. E tuttavia questa ricerca si rivelerà fallace e la responsabilità, se così vogliamo definirla, sarà solo dell’uomo:
Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta il tedio dell'inverno sulle case la luce si fa avara - amara l'anima. (da I limoni)
A questo punto la poesia diviene ambigua e si pone apparentemente in netta antitesi con il già citato Sesto movimento, Noi non sappiamo quale sortiremo domani. Montale pare voler prendere le distanze dall’invadenza del mare, la sua “pagina rombante”, pure così importante nella sua vita, come chi voglia rivendicare una libertà della quale infine non ha mai potuto godere; ci ha narrato storie di fallimenti e di successi, di pochezza e di grandezza, di illusioni e di certezze, di speranze e di delusioni. Ma infine, sfrondato ogni superfluo, rimaneva proprio la voce potente del mare (la pagina rombante di adesso) a unificare, sanare, identificare, consolare. Per questo motivo anche nel Settimo movimento Montale non può che concludere, nonostante tutto, che:
Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli ancora i groppi interni col tuo canto.
E quindi, tutti nodi, le labirintiche divagazioni del nostro animo trovano sempre nel mare una via d’uscita salvifica e l’incombente pagina rombante altro non diventa che un canto.
Rimane da affrontare l’ultimo verso: Il tuo delirio sale agli astri ormai. Enigmatico, inquietante e destabilizzante, richiama in un certo qual modo la catarsi conclusiva del romanzo di Svevo. C’è un sentore di dissolvimento che sa di definitiva liberazione, come se il mare, di per sé immagine simbolica di ciò che non ha confini né può essere imbrigliato, si levasse ancora di più verso l’assoluto. In conclusione, Montale ha tessuto in questo componimento una fitta trama di riferimenti a opere sue e di altri autori suoi contemporanei, evidenziando i punti nodali della propria poetica; soprattutto l’affanno della vita moderna, il bollore come lo definisce qui, che impedisce di guardarsi attorno ma consente solo di instradarsi in un solco definito per poi inevitabilmente confonderci e indurci allo smarrimento. E in ultimo, con le sue apparenti contraddizioni, sovrano assoluto, domina sempre il mare, con la sua vastità, la sua profondità insondabile, la sua voce inconfondibile, capace di colmare ogni tipo di distanza.
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