Il Porto Sepolto è una poesia di Giuseppe Ungaretti che dette il titolo alla sua prima “raccoltina”, come scrisse lui stesso. Al riguardo il poeta ricordava, nell’introduzione alla successiva edizione de L’Allegria: “Incomincio Il Porto Sepolto dal primo giorno della mia vita in trincea, e quel giorno era il giorno di Natale del 1915, e io ero sul Carso, sul monte San Michele. Ho passato quella notte coricato nel fango. […] Ero in presenza della morte, in presenza della natura, di una natura che imparavo a conoscere in modo nuovo, in modo terribile.” Ma il componimento è importante perché in esso il poeta ha voluto racchiudere la spiegazione più intima della sua poetica.
Leggiamo il testo:
Il Porto Sepolto
(Mariano il 29 giugno 1916) Vi arriva il poeta e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde Di questa poesia mi resta quel nulla di inesauribile segreto
Durante un periodo di riposo a Mariano del Friuli, Ungaretti tornò in mente una storia sentita molti anni prima, quando era diciassettenne, dai fratelli Jean e Henri Thuile, due ingegneri conosciuti ad Alessandria d’Egitto, i quali gli raccontarono dell’antichissimo e misterioso porto della città ormai sommerso dalle acque e dimenticato. L’affascinante narrazione di “quel porto custodito in fondo al mare” divenne la metafora perfetta dell’esperienza poetica di Ungaretti. Cerchiamo di comprenderne le ragioni.
Il porto è un luogo di scambio e di incontro, nel linguaggio comune definiamo “porto di mare” qualsiasi luogo caratterizzato dal continuo viavai di gente: vi si arriva, qualcosa si lascia e qualcos’altro si raccoglie e poi si riparte; il porto dunque non è un luogo che si elegge per rimanervi stabilmente ma è piuttosto un passaggio. Premesso questo, simbolicamente parlando, l’ovvio corollario è il viaggio, inteso come metafora della vita, e in particolare il viaggio per mare. Gli esempi in tal senso nella storia letteraria sono numerosi e illustri: tralasciando gli episodi evangelici, ne troviamo menzione in Dante Alighieri – che spesso associa la propria barca che prende il largo all’esperienza poetica stessa, diretta verso rotte e luoghi ancora inesplorati – e soprattutto da Petrarca che ne ha sondato ogni possibile evoluzione, come nel sonetto La vita fugge, et non si arresta una hora, nel quale si immaginano minacciosi fortunali ad attendere il poeta esattamente al porto, ovvero là dove dovrebbe trovarsi la salvezza dalle insidie del mare. Proseguendo su questa scia, potremmo certamente ricordare, il petrarchesco sonetto Giunto è già ’l corso della vita mia di Michelangelo Buonarroti. Potremmo continuare…
Il Porto Sepolto di Ungaretti però è diverso: lì il poeta arriva e rende manifesta la sua dimensione creativa; è il momento in cui i frutti dell’ispirazione maturano e sono pronti per essere colti e dispersi; comporre una poesia è come privarsi di una parte di sé, di più, equivale a mettersi completamente a nudo, in balia di chiunque e qualunque cosa, compreso lo scherno. Probabilmente questo stesso timore spingeva Aldo Palazzeschi a concludere la sua straordinaria Chi sono (1908) con i versi:
Son dunque... che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.
Oppure, di là dalla Manica,William Butler Yeats intorno al 1917 componeva sullo stesso tema una delle più belle poesie di tutti i tempi, eccola qua, merita leggerla tutta:
Cammini sui miei sogni
Se avessi il drappo ricamato del cielo,
intessuto dell’oro e dell’argento e della luce,
i drappi dai colori chiari e scuri del giorno e della notte
dai mezzi colori dell’alba e del tramonto,
stenderei quei drappi sotto i tuoi piedi:
invece, essendo povero, ho soltanto sogni;
e i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi;
cammina leggera, perché cammini sui miei sogni.
È una forma di dolore intimo e profondo ma necessario. La poesia dunque emerge dalle profondità più remote e sommerse e poi viene dispersa, e così si conclude il ciclo creativo. Ma il poeta non rimane mai completamente orfano delle sue creature: resta vivo interiormente un legame inesauribile e segreto, la linfa vitale che continuerà ad alimentarne l’ispirazione artistica. È importante forse una precisazione: per il poeta “disperdere” i propri canti non significa banalmente pubblicarli; l’atto di esternarli significa allontanarli da sé ed un processo inevitabile, e nonostante tutto il poeta non può abbandonare la propria ricerca.
Scherzando sulla prima edizione de Il Porto Sepolto, Ungaretti scrisse: “fu stampato a Udine nel 1916, in edizione di 80 esemplari a cura di Ettore Serra”, il giovane tenente che aveva notato lo scrittore all’opera in trincea, “La colpa fu tutta sua. A dire il vero, quei foglietti: cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spiazzi bianchi di care lettere ricevute… – sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, portandoli a vivere con me nel fango della trincea o facendomene capezzale nei rari riposi, non erano destinati a nessun pubblico”. Allora perché scrivere? Ricordando il primo incontro con Serra, Ungaretti a questa stessa domanda rispose: “Non ebbi il coraggio di confidarmi a quel giovane ufficiale che mi domandò il nome, e gli raccontai che non avevo altro ristoro se non di cercarmi e di trovarmi in qualche parola e ch’era il mio modo di progredire umanamente”.
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