Sono una creatura è una celebre poesia del poeta alessandrino, scritta nel Valloncello di Cima Quattro, il 5 agosto 1916, anch’essa quindi durante la battaglia per la conquista del Monte San Michele; in particolare, gli scontri nella zona operativa del battaglione di Ungaretti si conclusero solo il 10 agosto, dopo mesi di combattimenti sanguinosi, quando i soldati italiani finalmente raggiunsero la vetta dopo il ritiro degli austroungarici. Ma nei fatti, ancora la settimana precedente, questa imprevedibile conclusione che Ungaretti celebrerà con il capolavoro Mattina, era semplicemente inimmaginabile. Leggiamo intanto la poesia.
Sono una creatura
Come questa pietra del S. Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata Come questa pietra è il mio pianto che non si vede La morte si sconta vivendo (Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916)
Ungaretti paragona se stesso con la roccia carsica del Monte San Michele, individuandone le caratteristiche salienti e nessuna di esse è una qualità positiva: è una roccia fredda e dura, e questo possiamo immaginarlo con facilità; prosciugata come lo sono le rocce calcaree, incapaci di trattenere l’acqua che penetra all’interno da infinite spaccature, lasciando la superficie completamente arida, ovvero “così totalmente disanimata”. Ma oltre a queste peculiarità litologiche, la roccia del San Michele viene definita anche refrattaria, ovvero, per estensione, potremmo intenderla così inerte e insensibile di fronte a qualsiasi sollecitazione esterna.
Lasciamo per un attimo in sospeso l’analisi del testo per tornare all’aspetto formale-stilistico. Ungaretti già nel primo verso prova la necessità di razionalizzare il contesto che sta per descrivere e lo fa come di consueto con l’insistente utilizzo dell’aggettivo dimostrativo. È il suo modo per ancorarsi alla realtà, sentirsi vivo e parte integrante del cosmo, la “docile fibra” tanto agognata nella poesia I fiumi.
Ma nella particolare condizione descritta in Sono una creatura è possibile? Direi di sì, anzi, più che mai. Nella seconda strofa il poeta paragona il suo pianto alla pietra appena descritta: è un pianto disperato e impotente, esausto ma soprattutto è un pianto invisibile. La lacrime profuse non hanno migliore esito delle gocce di pioggia che cadono su quei luoghi poiché come esse vengono inghiottite nel buio delle cavità carsiche, non diversamente dalle urla disperate che nella poesia Solitudine sprofondano impaurite nelle distanze incolmabili della volta celeste.
Dopo questa strofa, con un arditissimo processo analogico il poeta conclude con l’enigmatica terzina: la morte si sconta vivendo. Cosa significa scontare la morte e soprattutto come e perché questo accade vivendo? Io credo che la migliore risposta possiamo trovarla com’è logico tra i versi dello stesso Ungaretti, in particolare nella tragica San Martino del Carso. Dopo aver evocato le case di San Martino ridotte a “brandelli” il suo pensiero va ai compagni caduti, dei quali “non è rimasto neppure tanto”; ma poi, soprattutto, nei versi che seguono:
Ma nel cuore nessuna croce manca È il mio cuore il paese più straziato
Quindi, come possiamo facilmente intuire, è il tormento che attanaglia il superstite di una tragedia alla quale è scampato non per meriti propri, è il senso di colpa del sopravvissuto, nonostante tutto, almeno fino a quel punto. Come non tornare col pensiero compagno caduto e congelato l’antivigilia di Natale del ’15 della poesia Veglia, o gli uomini appiattati nelle trincee come lumache nel guscio mentre sopra si spara, crivellando l’aria e i corpi, come narrato nella poesia In dormiveglia, scritta appena il giorno successivo di Sono una creatura. Ungaretti tradisce qui una spossatezza dalla quale pare non potersi più risollevare, e ancora di più, il cuore pesante si fa sentire pochi mesi dopo, nel solitario abbandono di Natale, nel successivo 1916, trascorso appartato accanto al focolare mentre fuori si affollano gomitoli di luci e di persone affannate. Ci fa sentire la torbida eredità di una guerra che ha rimodellato per sempre i corpi quanto gli animi di chi l’ha combattuta.
E allora, tornando alla refrattarietà della pietra del San Michele, sembra quasi una punizione contro gli uomini: tanto contro la loro folle arroganza quanto contro la loro disperazione. Davanti all’immane tragedia della Grande guerra anche la pietra sembra distogliere lo sguardo, rimanendo fredda e insensibile perfino di fronte al pianto più doloroso.
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