Il mare nella poesia di Eugenio Montale

La poesia di Montale è complessa e per definizione ermetica, eppure spesso si spalanca su scenari vastissimi, paesaggi scenografici capaci si suscitare in chiunque vibranti emozioni sulla pelle, a patto che la lettura non sia frettolosa e dia modo e tempo alle sensazioni di fluire e riempire  la nostra immaginazione. In questo il mare ha un indiscutibile ruolo da protagonista che Montale, cresciuto sulla riviera ligure, pare conoscere in ogni più intima sfumatura.

Il mare è una presenza sempre mutevole e capace di dispiegare una tavolozza pressoché infinita di presentazioni eppure mantiene una sorprendente identità; spesso viene presentato in una simbolica lontananza, pronto ad abbracciare per intero tutto il nostro orizzonte grazie alla sua poderosa immensità, soprattutto se messa in relazione con gli spazi meschini e angusti che gli uomini ritagliano attorno a loro stessi con muri invalicabili; ci appare mentre fa capolino tra le fronde, col suo liquido e accecante formicolare, oppure percepiamo la presenza incombente del fragoroso infrangersi delle onde su scogliere schiumanti; o veniamo investiti dal suo alito umido e salmastro, tanto da lasciare un’impronta indelebile.
Raramente è descritto da solo e con terra e cielo costituisce una triade dai confini sfumati e mobili, dove pare che ciascuno degli elementi si appoggi al successivo a formare un’unità inscindibile, brulicante di vitalità e movimento. Anche per questo motivo, di volta in volta, il suo volto è sempre differente: in Meriggiare pallido e assorto si mostra a “scaglie”, ovvero con la luce smerigliata e ipnotica che si infrange fra le infinite increspature della superficie; talvolta sembra avvicinarsi quasi a cercare un contatto e comunicare con il suo suo ruggito potente, come in A vortice s’abbatte “quando più sordo o meno il ribollio dell’acque” ci raggiunge con le sue armoniche profonde, e sfuma e poi si confonde negli altri suoni della natura, come il volo di un “bombo” o un “ripiovere di schiume sulle rocce”.

Montale eleva in suo onore un vero monumento poetico all’interno di Ossi di seppia, nel gruppo di nove poesie raccolte sotto il titolo Mediterraneo. Come in un polittico gotico, immagine dopo immagine, prende vita un vero proprio percorso esistenziale e sensoriale in cui il mare è una costante presenza che si impone con la sua autorevolezza e l’incontenibile energia evocatrice. Così, come il titolo della raccolta ci suggerisce, il mare è capace di rigettare ogni genere di oggetti e di dar loro nuova vita, ma allo stesso modo diviene latore e in un certo qual modo custode dei più intimi sentimenti di chi in sua presenza ha legato voti, memorie, passioni. Indimenticabile la venerazione espressa in Antico, sono ubriacato dalla tua voce, una voce inconfondibile che trasporta ricordi ed emozioni che sanno di casa, scrive il poeta “delle mie estati lontane”. “Come allora oggi in tua presenza impietro” ma la distanza fra uomo e mare rimane incolmabile e sfuggente: “esser vasto e diverso / e insieme fisso: / e svuotarmi così d’ogni lordura / come fai tu che sbatti sulle sponde […] / le inutili macerie del tuo abisso”. I vocativi che Montale sceglie per il suo mare implicano deferenza e rispetto: da “Antico” a “Padre”, richiamando intime corde liturgico-sacrali o forse, più semplicemente riconoscere e ricondurre al mare il grandioso atto creativo che riporta a lui l’origine di ogni creatura vivente.

Esso è capace di suscitare perfino visioni fantastiche che travalicano la sfera percettiva della nostra quotidianità, del resto gran parte dell’esperienza poetica di Montale è proprio volta a far breccia nella dura scorza del tran tran in cui si affievoliscono le nostre vite; così, quasi un richiamo a riscuotersi dal torpore, in Ho sostato talvolta nelle grotte, con metamorfosi potenti, i suoni diventano luci, luci diventano colori, colori diventano immagini, le immagini pensieri: “Sorgevano dal tuo petto / rombante aerei templi, / guglie scoccanti luci”.

Il mare non veste mai i panni di uno spettatore, per quanto assiduo, delle vicende umane, ma diviene piuttosto un custode fedele e partecipe dei segreti e delle memorie che si sono consumate in sua presenza, come ne La casa dei doganieri, “sferzata” e quasi digerita dai venti e dalla salsedine sulla scogliera. Di fronte al turbine caotico dei pensieri e delle preoccupazioni di chi lassù ha vissuto, il mare ripete il suo incessante ritornello attorno al quale le vite si dipanano, come un filo sempre più corto e teso. In questa formidabile poesia, Montale cerca invano di ricostruire ponti distrutti, poggiati su pilastri ancora più fragili, memorie frammentate e confuse, bussole impazzite e banderuole che girano senza più alcun criterio. “Il varco è qui?” Questa domanda, caposaldo dell’intera poetica montaliana, apre uno squarcio nel tessuto della vita. Il varco, altrove il “miracolo” o un “mal chiuso portone” sono i momenti che possono metterci in contatto con un altro mondo, pulito, essenziale, nuovo, senza più le trappole e gli “scorni” di chi è convinto che l’esistenza e la realtà si esauriscano tutte nel mondo “che si vede”. “Il varco è qui?”. Sotto, distante, “ripullula il frangente” e, conclude il poeta, “io non so chi va e chi resta”.
Il senso di smarrimento davanti al mare e ai suoi misteri mettono ancor più a nudo la fragilità e la precarietà della condizione umana, un’evidenza tagliente che rimbalza all’infinito tra le luminose “scaglie” di mare e “i cocci aguzzi di bottiglia” che continuamente conficchiamo sui muri innalzati contro noi stessi. Sembra quasi che Montale voglia sottintendere, attraverso l’incessante flusso e riflusso delle acque, la lettura simbolica di una verità che è paradossalmente duplice, come la natura stessa del mare, amica e nemica, oppure un costante andirivieni fra svelamento e mascheramento. Nelle acque profonde ogni giorno anneghiamo sentimenti, propositi, memorie da custodire o da obliare; ma il mare, si sa, e mutevole e con una logica imperscrutabile rigetta sulla spiaggia ciò che gli affidiamo, trasformato in “inutili macerie”, come un osso di seppia.

Ma allora qual è realmente e profondamente il coinvolgimento del mare nella vita del poeta, e nostra? Cosa dobbiamo e possiamo aspettarci dal confronto col mare? Prima di azzardare qualsiasi interpretazione, è importante ricordare la poesia Non chiederci la parola, nella quale l’autore dichiara espressamente l’incapacità sua e dei poeti di esaudire seriamente ogni richiesta di spiegazione di fronte alle inquietudini del mondo moderno; bussole sviate e banderuole come trottole non possono offrire più alcun supporto. Allora nemmeno il mare può niente contro questo annullamento che sembra distruggere pezzo per pezzo l’intera esistenza? Io credo che la migliore risposta arrivi dalla ineguagliabile bellezza di Noi non sappiamo quale sortiremo, vero e proprio inno al mare, alla poesia e alla vita che scorre, vibrante e palpabile, passionale. Non importa dove e quanto lontano ci condurranno i nostri destini; come foglie e frange inutili cadrà il nostro superfluo fino a lasciarci irriconoscibili, solo allora, levigati come ciottoli, sentiremo echeggiare quell’antica voce e scoprire che è sempre stata lì, con noi. Il mare quindi sarà capace di ricostituire sempre e in ogni momento la nostra identità e la nostra essenza stessa e di rimettere dopo ogni folle deriva ogni cosa al proprio posto: in Dissipa tu se lo vuoi scrive Montale “ma sempre che traudii la tua dolce risacca in sulle prode sbigottimento mi prese. […] Presa la mia lezione più che dalla tua gloria aperta, dall’ansare che quasi non dà suono di qualche pomeriggio desolato, a te mi rendo in umiltà.”

Ma non possiamo lasciarci senza rileggere questo capolavoro:

Noi non sappiamo quale sortiremo

Noi non sappiamo quale sortiremo
 domani, oscuro o lieto;
 forse il nostro cammino
 a non tòcche radure ci addurrà
 dove mormori eterna l’acqua di giovinezza;
 o sarà forse un discendere
 fino al vallo estremo,
 nel buio, perso il ricordo del mattino.
 Ancora terre straniere
 forse ci accoglieranno; smarriremo
 la memoria del sole, dalla mente
 ci cadrà il tintinnare delle rime.
 Oh la favola onde s’esprime
 la nostra vita, repente
 si cangerà nella cupa storia che non si racconta!
 Pur di una cosa ci affidi,
 padre, e questa è: che un poco del tuo dono
 sia passato per sempre nelle sillabe
 che rechiamo con noi, api ronzanti.
 Lontani andremo e serberemo un’eco
 della tua voce, come si ricorda
 del sole l’erba grigia
 nelle corti scurite, tra le case.
 E un giorno queste parole senza rumore
 che teco educammo nutrite
 di stanchezze e di silenzi,
 parranno a un fraterno cuore
 sapide di sale greco.


2 risposte a “Il mare nella poesia di Eugenio Montale”

  1. […] a cui tutto ritorna, il luogo che tutto trasforma e rigenera. Ho già toccato l’argomento in questo articolo dedicato a questo istintivo rapporto fra uomo e mare. Nell’articolo si cita la poesia Noi non […]

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  2. […] una volta il grande interlocutore di Montale è il mare, col quale sembra condividere quasi ogni attimo della propria esistenza e a lui sembrano ricondurre […]

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