In tutta sincerità, andando a selezionare un’antologia di canti della Commedia non è possibile tralasciare il canto XI del Purgatorio, il canto dei Superbi.

Il testo inizia con la recita del Padre nostro da parte delle anime, dopodiché arriva la loro descrizione, il cui contrappasso è quanto mai evidente: il loro peccato di superbia, espresso dalla postura altezzosa in vita, è qui corretto da un macigno che devono portare sulle spalle, dimensionato in misura diretta all’entità del peccato, e che li obbliga adesso a procedere sulla salita della montagna del Purgatorio chinati a tal punto da non riuscire nemmeno a guardare davanti.

Affiancandosi a loro, Dante incontra Umberto degli Aldobrandeschi, membro di una delle più importanti famiglie aristocratiche della Toscana medievale. Per sua stessa confessione, il peso del proprio cognome e le gesta dei suoi avi gli instillarono tanta arroganza e superbia da condurlo alla morte, a quanto pare nel 1259, combattendo contro Siena che aveva assediato il castello di famiglia di Campagnatico.

Dopo il suo racconto subentra quello di un secondo personaggio: Oderisi da Gubbio (1240 ca-1299), al suo tempo famoso maestro miniatore e le sue educative parole narrano quanto sia effimera la gloria umana e terrena, destinata invariabilmente a soccombere alle insidie del tempo; merita riportare i celebri versi:

"Frate", diss’ elli, "più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sare’ io stato sì cortese
mentre ch’io vissi, per lo gran disio
de l’eccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de l’umane posse!
com’ poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l’etati grosse!
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido." (Purg. XI, 82-99)

Parafrasando:

"Fratello", disse, "adesso le carte miniate 
arridono di più a Pietro Bolognese, 
e l'onore è tutto suo, e mio solo in parte.
E non sarei stato così cortese [nei suoi confronti]
mentre ero in vita a causa del potente desiderio
di eccellere al quale fu tutto atteso il mio cuore.
Di questa superbia, qui si paga il fio;
e non sarei ancora arrivato qua, se non fosse che,
quando ancora ero peccatore, mi rivolsi a Dio.
Oh, vana gloria delle azioni umane!
Quanto poco a lungo si mantiene verde sulla cima, 
se non capita in epoche rozze! [ovvero epoche in cui non c'è alcun progresso]
Cimabue credette dominare il campo nella pittura
e ora Giotto detiene la fama,
tanto che quella dell'altro si è oscurata.
Allo stesso modo un Guido ha tolto all'altro
la gloria della lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido."

Be’, direi che ci sono argomenti a sufficienza.

Prima di addentrarci, un piccolo appunto sulle leggi che governano il Purgatorio: al v. 89 Oderisi dichiara che non sarebbe ancora lì se non si fosse rivolto a Dio per tempo, questo perché il pentimento è sì una condizione indispensabile per accedere, ma quanto più arriva tardivamente, tanto più le anime devono sostare in attesa nell’Antipurgatorio, prima di iniziare il percorso di purificazione vero e proprio.

La terzina successiva è assai interessante:

Oh vana gloria de l’umane posse!
com’ poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l’etati grosse!

Grosso, nel lessico medievale, significa rozzo, inteso come nell’italiano moderno l’aggettivo grossolano, anche per qualificare personaggi un po’ tonti, ignoranti e facilmente manipolabili. 

Dante afferma quindi che in epoche di fermento intellettuale la gloria terrena è ancor più fugace perché anche le più pregiate imprese sono destinate a essere in breve tempo sorpassate; questa è una legge da tener ben presente per una corretta interpretazione dei versi successivi, ovvero quando inizia la carrellata di artisti che si sono succeduti nella storia recente e contemporanea di Dante, con le nuove generazioni che hanno oscurato le precedenti. In altre parole, per il Sommo poeta – e su questo aspetto ho insistito tanto in diversi articoli – la ricerca del continuo progresso era una condizione esistenziale, inseparabile dalla natura dell’uomo stesso, e per l’artista forse anche di più; la costante pulsione a migliorare sempre la qualità della propria opera, perfezionare sempre più i propri talenti, ma con l’ineludibile consapevolezza di vedere ogni sforzo sorpassato dal naturale progredire delle cose, a vantaggio di tutto il genere umano.

Se non si tiene conto di questa premessa, si capisce perché i versi successivi che trattano della “gloria de la lingua” siano tra i più chiacchierati dell’intera Commedia. Il primo e il secondo Guido sono Guido Guinizzelli e Guido Cavalcanti, ovvero i fondatori del Dolce Stilnovo. Il primo, che incontrerà più su, nella cornice del Purgatorio dei Lussurioso, è qualificato come: “il padre\ mio e de li altri miei miglior che mai\ rime d’amore usar dolci e leggiadre” (Purg. XXVI, 97-99); per il secondo, Guido Cavalcanti, Dante spenderà invece sempre parole di grande ammirazione come maestro e soprattutto amico.
Ad ogni modo, prosegue il testo, “forse è nato\ chi l’uno e l’altro caccerà del nido.” E ovviamente colui che spodesterà entrambi è Dante stesso. Ora, se proprio nel canto in cui si “paga il fio” del peccato di superbia, Dante si fosse lanciato in una sparata di boria autocelebrativa, sarebbe stato oltremodo antipatico, pedestre, e del tutto fuori luogo, anche tenendo conto che egli era decisamente fiero della propria opera; non per nulla, proprio nella cornice successiva dove si purgano gli Invidiosi (canto XIII), apertamente ammetterà che non lo preoccupa molto tale peccato e sa che sosterà in quella cornice per poco tempo, mentre confessa che lo preoccupa molto di più quella di sotto, ovvero proprio quella dei superbi. 

È fondamentale quindi sottolineare che nel preciso contesto del canto XI, Dante inserisce la sua poesia all’interno di un naturale meccanismo di inarrestabile perfezionamento e superamento delle cose, nell’attesa quindi di un successore che inevitabilmente arriverà, raccogliendo lo scettro e portando ancora più in alto la gloria della lingua.

Sarà mai arrivato questo erede? Petrarca sentiva con lacerazione interiore questa stessa pulsione verso la gloria terrena e non ne fece mistero; secoli dopo, Michelangelo Buonarroti, un appassionato ed esperto lettore sia di Dante di che di Petrarca, dovrà affrontare in misura del tutto analoga lo stesso dilemma e percepire in tutta la sua forza il terribile traino del verso il peccato della superbia e l’ambizione alla fama.

Esattamente su questa linea, per concludere è indispensabile dare un ultimo sguardo alle parole di Oderisi e all’ovvio duello tra la fama e il tempo:

Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato. (vv. 100-102)

La gloria terrena non è altro che un alito
di vento, che spira ora in una direzione ora nell’altra,
e cambia nome perché cambia lato.

E prosegue con severe parole: cosa cambierà, da qui a mille anni, se tu morirai vecchio o se tu fossi morto quando eri bambino e ancora dicevi “pappo” e “dindi”? Niente. Quest’ultima considerazione è particolarmente arguta poiché oltre a ribadire la fatua consistenza della fama terrena, torna a stuzzicare il tema della gloria della lingua come se, infine, tutte le conquiste del Sommo poeta altro non fossero che un breve palpito, affatto diverso dal balbettante linguaggio di un bambino che impara a parlare.

Mi verrebbero in mente infinite diramazioni partendo da questo ragionamento, magari un’altra volta.

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5 pensieri riguardo “Il naturale progresso delle cose. Sul canto XI del Purgatorio di Dante Alighieri

  1. Ravvedersi dai propri peccati è appunto condizione indispensabile per ambire alle gioie del Paradiso, passando per il necessario periodo di purificazione del Purgatorio.

    Proprio per i superbi questo è ancora più difficile, perché il superbo – proprio in quanto tale – non percepisce di esserlo, ma ritiene di meritare le adulazioni ed i meriti ottenuti, e se ne autocompiace.
    E’ tutto fisso in un eterno presente, senza la riflessione di come gli umani eventi faranno tramontare il sole anche su di loro.

    Ogni tanto sono superbo anch’io.
    Ma – come tutti i superbi – mi auto-assolvo: è giusto che io lo sia, perché sono migliore degli altri.
    Peccato doppio.

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      1. 😀
        Hahaha

        Siamo tutti forse un po’ superbi, in qualche ambito del lavoro o della quotidianità. Nel senso che riteniamo, a torto o a ragione, di essere “più bravi degli altri” nel fare qualcosa.
        Ma credo sia grave farsene un vanto e rimarcarlo: finché rimane solo una nostra convinzione personale, che male fa?

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  2. Ho letto l’articolo con grande interesse. E’ incredibile come a distanza di così tanti secoli la Divina Commedia riesca a rimanere un’opera così impressionante e capace di portare ancora oggi a delle riflessioni e analisi così profonde. Anche sulla questione dei superbi riesce a portare in scena un personaggio veramente ottimo che rappresenta bene questo peccato e che rimane qualcosa di attuale.

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    1. Ti dirò: sebbene la Divina Commedia sia una mia passione che risale molto lontano nel tempo (oltre che uno strumento della mia professione), non soltanto non mi stanca mai, ma ogni rilettura mi svela dettagli ai quali non avevo mai prestato la dovuta attenzione. Ed è la pura verità. Grazie per il tuo commento e per essere passato da queste parti. 🙂

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