Purtroppo non esiste più il manoscritto autografo della Divina commedia, anzi, per essere più precisi non esiste alcun autografo dantesco. Niente di niente e quindi tutto ciò che conosciamo dell’opera del poeta deriva da copie posteriori, e poi da copie di copie, e poi ancora così, di generazioni in generazioni manoscritte.
Questo fenomeno in realtà vale per ogni tradizione manoscritta e già Petrarca ne fece oggetto di studio. In epoca moderna ne è nata addirittura una scienza, che si occupa, esattamente di stabilire rapporti di filiazione e parentela da una copia alla successiva.
Ma veniamo al punto. Della Commedia esistono diverse copie trecentesche, alcune relativamente vicine alla prima redazione. Eppure, se andiamo a confrontare i testi, noteremo con facilità che divergono in molti parti: alcune sono differenze di ortografia fonetica o semplicemente paleografiche, altre, be’, offrono varianti più sostanziose.
Ne ho scelta una: il verso 96 del canto V dell’Inferno.
È il celebre canto di Paolo e Francesca, il canto dei lussuriosi. Le anime dannate sono spazzate via da un vento vorticoso che le sbatte incessantemente le une contro le altre e contro le pareti del baratro infernale. Dante, in questa moltitudine, dietro il suggerimento di Virgilio riconosce molti personaggi storici (più o meno) ma la sua attenzione è catturata da due anime che veleggiano appaiate.
Il poeta si rivolge a loro con grazia, invitandoli, se non vi sono impedimenti, a sostare per parlare con loro. L’inaspettata gentilezza nei loro riguardi, colpisce le due anime che si separano dalla schiera dei dannati e si planano accanto ai due pellegrini per parlare.
Come anticipato, vorrei attirare la vostra attenzione sul verso 96 il quale, nell’edizione critica della Commedia, pubblicata da G. Petrocchi, così si legge:
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci tace. (vv. 94-96)
terzina per la quale normalmente si fornisce questa parafrasi:
Di ciò che più vi piacerà ascoltare e parlare,
noi ascolteremo e parleremo con voi,
intanto che il vento, così come fa adesso, tace.
Vediamo alcune delle varianti che interessano il pronome finale “ci”, soluzione adottata dalla maggior parte dei codici, come in quello, giusto per fare un esempio, copiato di propria mano da Giovanni Boccaccio (Codice 321, Riccardiano 1035, Firenze – Biblioteca Riccardiana):

(quartultima riga)
Di quel ch’udire, et che parlar ti piace
noi udiremo et parleremo ad voi
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
Nel codice Magliabechiano cl. VII n° 1229 bis, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze si legge invece:

(quartultima riga)
Di quel ch’udire e che parlar ti piace,
noi hudiremo e parleremo a voi
mentre che ’l ve[n]to chome face, tace.
Diversamente, nel bellissimo Codice 734 (200), San Daniele del Friuli – Biblioteca Comunale Guarneriana leggiamo:

(terzultima riga)
Di quel c’udire et che parlar vi piace,
noi odiremo et parleremo a voy [sic]
mentre che’l vento come fa, si tace.
Naturalmente esistono anche varianti intermedie, come il Codice 603 (L.70), Perugia – Biblioteca Comunale Augusta che riporta anche segni indicatori per la cadenza della lettura, assimilabili alle virgole della scrittura moderna:

(terzultima riga)
Di quel ch’udire, et che parlar ti piace,
noi udiremo, et parleremo a voi,
mentre ch’el vento, come fa, si tace.
Detto tra parentesi, si saranno notate sia l’alternanza del pronome ti\vi piace del v. 94, sia le numerose varianti ortografiche, ma questo è parte caratterizzante della tradizione manoscritta. Torniamo però adesso al v. 96. Tutte le letture concorrono (la versione “ci tace” un po’ meno) a sottolineare un evento decisamente straordinario, ovvero una impensabile sospensione della pena dei dannati in nome dell’Amore. Il fatto ha dell’inspiegabile: nessun dannato ha la minima speranza che la sua pena possa essere attenuata, anche solo per un momento. Appena pochi versi sopra i precedenti leggiamo infatti:
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena. (vv. 43-45)
Anche nel Purgatorio si narra di anime che possono rallentare il passo per intrattenersi con Dante ma a nessuna è concesso di fermarsi e sempre infine, dovranno affrettare il passo per recuperare la distanza dal gruppo al quale appartengono. Eppure Paolo e Francesca possono sottrarsi al mugghiare della “bufera infernal” che li trascina senza tregua e raccontare la loro storia. Alcuni attenti critici hanno messo in evidenza come la doppia cesura del v. 96 scandita dalle due virgole sia come un doppio colpo di freno al vorticoso turbinare del vento.
Se vogliamo essere pignoli, la lezione “si tace”, o quella ancora più addomesticata “face, tace”, sposta la prospettiva sul tacere della furiosa tempesta infernale perché possa instaurarsi un possibile dialogo fra i personaggi. Ma come spiegare la lezione “ci tace”? L’interpretazione più semplice sarebbe: “intanto che il vento ci azzittisce.” Parafrasi decisamente incompatibile con la realtà dei fatti.
Ma, contrariamente alla logica, qui prevale una lectio difficilior, ovvero l’interpretazione più giusta è quella più tortuosa. Questo, apparentemente una stranezza, è in realtà un principio della filologia ben collaudato: di fronte a due esiti testuali differenti, quello più complesso tende a essere il più vicino all’originale e ciò dipende dal fatto che i copisti cercavano di semplificare le parti che per loro erano più ostiche da comprendere e quindi reputate frutto di un precedente errore.
Nel nostro caso, la particella “ci” non sarebbe quindi un pronome ma un avverbio di luogo: qui. Potrebbe trattarsi di un francesismo: ici, qui, appunto.
Ma tutto ciò non cambia la natura eccezionale dell’evento, ovvero l’opportunità per Paolo e Francesca di uscire dalla schiera di dannati e posarsi in un luogo riparato dal vento.
In questo canto V, seppur nella distorsione dalla connotazione lussuriosa, Dante rievoca i canoni imposti da Amore dittatore, così familiari nella precedente fase stilnovista del poeta. Pur nella tragicità del racconto, “noi che tingemmo il mondo di sanguigno”, dopo le terrificanti descrizioni di Minosse, e le scioccanti visioni dei corpi straziati nella bufera, il canto acquista una dimensione quasi irreale, proprio in virtù di questa insospettabile sospensione e il linguaggio torna ad essere dolce e appassionato, l’emozione e la sorpresa dell’innamoramento è quasi contagiosa: “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”.
Che proprio l’amore possa superare ogni ostacolo (sebbene per concessione divina), scavalcare i confini della morte e del tempo è un’idea accattivante e di gran suggestione e anche la diversa disposizione d’animo di Dante nei confronti dei dannati da subito appare diversa: non è l’unico caso e una simile compassione sarà dimostrata nei confronti altri dannati, su altri valori: Pier delle Vigne (Inf. XI) e il Conte Ugolino della Gherardesca (Inf. XXXIII), entrambi ingiustamente (al secondo Dante concede almeno il beneficio del dubbio) per invidie e discordie politiche, secondo profili nettamente vicini alla storia del Poeta.
Amore e altissima concezione dei valori civili sembrano essere quindi chiavi che aprono porte altrimenti invalicabili. Non dimentichiamo che Catone Uticense, pagano e suicida in nome della libertà contro la tirannia, nella Commedia è posto a guardia dell’isola del Purgatorio.
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