In apertura della Commedia, Dante ci narra il celebre smarrimento nella “foresta oscura” (vedi qua per approfondire), l’allontanamento dalla “retta via” e, dopo molto spavento, conclude con il suo uscirne miracolosamente illeso, anzi, con la soddisfazione di colui che è “uscito fuor dal pelago alla riva” e “si volge verso a l’acqua perigliosa e guata”, ben felice d’averla scampata e di poterla raccontare. Ma è un gioia effimera poiché quando il poeta crede di aver trovato una via per tornare nella luce risalendo un provvidenziale colle si ritroverà e precipitare nuovamente nelle più buie e remote pieghe di quella valle “dove ‘l sol tace”.
Attraverso la sua esperienza, il poeta dimostra come, nonostante le pene e gli spaventi patiti, l’uomo abbia memoria corta e basti un piccolo raggio di luce perché metta da parte ogni spinta al ravvedimento in favore forse di più facili scorciatoie e ripiegamenti. Come se egli si fosse per un momento convinto, con una disinvoltura tutta umana, che poi non è così difficile riuscire a mettersi in salvo con le proprie forze. Le tre fiere allegoriche che incontrerà fuori dalla selva – la lonza, il leone e la terribile lupa – gli dimostreranno che non è affatto così, imponendo a Dante un nuovo percorso.
E così il poeta, raccolto da Virgilio per intercessione di Beatrice, inizierà la discesa nell’abisso, senza tregua e senza sconti, perché possa verificare con mano ciò che evidentemente il suo spirito ancora si rifiuta di accettare in astratto. In effetti questo era un processo mentale, una debolezza se vogliamo, tipico dell’uomo medievale il quale non riusciva a concepire ciò che fosse pura idea e pura astrazione; poteva credere a mostri e fantasie mitologiche d’ogni tipo ma doveva poterle immaginare come qualcosa di concreto, visibile, anche solo come rappresentazione. Allora, girone dopo girone, tormenti dopo tormenti, i due poeti attraversano paesaggi ‘reali’ e tangibili, fino a raggiungere a un luogo particolarmente misterioso e inquietante, un’altra selva oscura; ma lasciamo che sia Dante stesso a descriverla (Inferno, XIII, vv. 1-9):
Non era ancora di là Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato. Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; non pomi v'eran, ma stecchi con tosco. Non han sì aspri sterpi né sì folti quelle fiere selvagge che 'n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi colti.
La dettagliata visione, se confrontata con la scarna definizione della selva oscura dell’apertura della quale sappiamo solo che era buia, selvaggia, cioè inospitale, aspra, cioè intricata e forte, ovvero incombente e minacciosa, oltre alle ovvie necessità narrative (ma che potevano essere valide anche per il primo caso), credo che dimostri la maggiore consapevolezza del poeta nella comprensione di quanto lo circonda. Addirittura, per aiutarci a comprendere, ci fornisce un valido termine di paragone: le zone inselvatichite fra Cecina e la Val di Cornia, inospitali e pericolose.
La selva del canto I è stranamente silenziosa mentre in questa, come da tutti i luoghi infernali, si levano suoni lamentosi. In parte provengono dalle arpie, esseri mostruosi della mitologia greca metà donna e metà rapace, che straziano le piante di quel bosco strappandone le foglie non appena spuntano, ma non è tutto e Dante cade in un tragico equivoco:
Io sentia d’ogne parte trarre guai
e non vedea persona che ’l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai. (vv. 22-24)
Si odono quindi altri lamenti ma non vedendone l’origine è preso da timore e piuttosto che addentrarsi oltre si ferma, immaginando che le anime dei dannati siano nascoste dietro i tronchi. La lezione subita nella tenebrosa valle là fuori, nel mondo dei vivi, sta sortendo l’effetto desiderato e il poeta ha ormai capito che da solo non può attraversare quei luoghi e quanto rappresentano, in particolare questa foresta nel VII girone dell’Inferno, una delle pagine credo più scioccanti dell’intero poema: la selva dei suicidi.

La legge del contrappasso prescritta per questi peccatori è chiarissima e anche disturbante: le anime dei suicidi sono scaraventate lì direttamente da Minosse e dove cadono, radicano e crescono sotto forma di alberi nodosi. Al momento del Giudizio universale, sappiamo che tutti i corpi risorgeranno e si riuniranno all’anima per presentarsi al cospetto di Cristo, ma questo non avverrà per loro, che volontariamente si sono separati dal corpo mortale; rimarranno dunque in forma d’albero e le sembianze umane di un tempo, quale forme vuote e flosce, verranno appese ai rispettivi rami a perpetua memoria di quanto hanno perduto.
Ovviamente, anche nella condizione attuale le anime soffrono per le ferite inferte dalle arpie, per l’impossibilità di esprimere e dare sfogo al dolore, gemono e sanguinano quando vengono i rami spezzati.
Mi sono sempre domandato le ragioni di questa inquietante condanna e soprattutto della motivazione profonda, se ce ne fosse una, della trasformazione dei dannati in alberi; in fin dei conti, nella gerarchia infernale, il peccato dei suicidi pur gravissimo è in una posizione intermedia, prima delle Malebolge dell’Ottavo girone e dei traditori nel fondo dell’Inferno. Dante stesso, come in altri ben circoscritti e ‘motivati’ casi, sembra quasi dimostrare pietà e partecipazione per il dramma dei suicidi, come volesse richiamare l’attenzione dei lettori su di un peccato che ha ragioni e manifestazioni molto particolari e profonde; un atteggiamento di compassione che non è nuovo e possiamo riconoscere nel celebre episodio di Paolo e Francesca, lussuriosi del canto V, oppure nella violenta invettiva contro Pisa al termine della tragica narrazione di Ugolino della Gherardesca, fra i traditori del canto XXXIII.
Ogni peccatore dell’Inferno è dannato in eterno per il volontario e consapevole rifiuto del messaggio salvifico di Cristo e tutti, senza eccezione, hanno preferito perseverare nelle loro passioni e debolezze terrene. Ma per i suicidi è diverso poiché essi sono innanzitutto vittime di loro stessi, impossibilitati a vedere altra via uscita ai loro drammi se non ponendo fine alla propria vita, incapaci quindi di credere all’abbraccio salvifico di Cristo.
Tale miope mancanza di fiducia li divide, a titolo di esempio, dalla carismatica figura dell’imperatore Manfredi di Svevia, protagonista del canto III del Purgatorio. Egli, al giudizio degli uomini morto fuori dalla grazia di Dio, dimostra col suo essere sulla via della salvezza che (Purg., III, vv 121-123):
Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei.
In quelle tragiche esistenze una tale luce non s’è mai accesa a illuminare il buio dentro di loro, e alla sofferenza si è sommata la disperazione, il sentirsi intrappolati e bloccati senza alcuna possibilità di scampo, esattamente come in una prigione. Quale metafora, dunque, poteva rendere meglio dell’albero radicato al suolo? Esso, nella sua fissità, non può cambiare la prospettiva attorno a sé e cresce affondando sempre più nella propria solitudine.
Per concludere, nell’immaginazione collettiva, spesso associamo l’albero, specialmente quando particolarmente robusto, all’idea di forza, di saldezza, “si spezza, ma non si piega” diciamo di colui che non recede dalle proprie convinzioni. In sostanza ne diamo una visione positiva: Guido Guinizzelli, padre dello Stilnovo, scriveva, parafrasando, che l’Amore si rifugia sempre nel cuore nobile come gli uccelli tra le fronde del bosco. Dante ci insegna il contrario. Difatti, prima che il poeta possa affrontare degnamente la sua risalita lungo le pendici del Purgatorio dovrà sottostare a due rituali. Recandosi sul bagnasciuga (la montagna del Purgatorio è un’isola in mezzo all’Oceano), dovrà prima lavarsi la faccia per togliere via la fuliggine infernale, poi dovrà cingersi la veste con un giunco che lì vegeta spontaneamente. Questa la spiegazione, secondo le parole di Catone Uticense, custode del Purgatorio
Questa isoletta intorno ad imo ad imo, là giù colà dove la batte l’onda, porta di giunchi sovra ’l molle limo: null’altra pianta che facesse fronda o indurasse, vi puote aver vita, però ch’a le percosse non seconda.
Questa è quindi la sorprendente rivelazione: non chi si indurisce sulle proprie posizioni otterrà la salvezza ma chi, docilmente, asseconderà il cambiare e il fluire delle cose. Non riesco a immaginare un messaggio di maggiore modernità.
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