Sui versi iniziali della Divina Commedia di Dante Alighieri

Tutti conosciamo i versi iniziali del Canto I dell’Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri, e come tutti gli incipit di opere famosissime – e forse questo è il più celebre fra tutti – rischia di scivolare via senza le dovute attenzioni. Allora proviamo a cercare meglio, facendoci spazio tra le fronde della selva oscura.

Nel mezzo del cammin di nostra vita 
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

Nel mezzo del cammin di nostra vita. Su questo verso le abbiamo sentite di tutte: quanti anni sono, quanti anni erano per Dante? In realtà non c’è bisogno di tirarla troppo per le lunghe: Egli nacque nel 1265, il viaggio narrato si colloca nel 1300, il conto è presto fatto. Ovviamente che siano 35, 38 o 40 anni è del tutto irrilevante rispetto al significato di trovarsi a metà della propria vita. E cosa intendeva con questo il poeta? Probabilmente volle evidenziare il momento della ponderazione, quando deposti gli ardori e le velleità giovanili comincia a riflettere e capitalizzare le scelte compiute fino a quel momento; lui come ognuno di noi. È quindi un momento che potremmo definire fortunato perché concede l’occasione di pensare al proprio ravvedimento e questo e solo questo è quanto veramente importa. Di tutto questo Dante stesso fornisce un’altra precisa e documentata trattazione nel Convivio (1304-1308), IV, dove spiega che la vita umana:

[…] procede a imagine di questo arco, montando e discendendo.

[…]

E però che lo maestro de la nostra vita Aristotile s’accorse di questo arco di che ora si dice, parve volere che la nostra vita non fosse altro che uno salire e uno scendere: però dice in quello dove tratta di Giovinezza e di Vecchiezza, che giovinezza non è altro se non accrescimento di quella. Là dove sia lo punto sommo di questo arco, per quella disaguaglianza che detta è di sopra, è forte da sapere; ma ne li più io credo tra il trentesimo e quarantesimo anno, e io credo che ne li perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno.

Quindi l’immagine migliore che rappresenta la vita umana è un arco, non necessariamente simmetrico per le più varie ragioni, ma tendenzialmente la chiave di volta si colloca al trentacinquesimo anno; è il punto più alto, dal quale si riesce a vedere più lontano. Ecco perché è importante approfittare di questo passaggio che non durerà a lungo. Per concludere, anche nel Salmo 89 è scritto:

Gli anni della nostra vita sono settanta,
ottanta per i più robusti,
ma quasi tutti sono fatica, dolore;
passano presto e noi ci dileguiamo.

Direi che tutto torna.

Ad ogni modo, prima di addentrarci nella metafora, il Sommo Poeta pone se stesso nella famigerata selva oscura. L’incongruenza logico-narrativa del primo emistichio balza agli occhi perché sfuma da una condizione generale, la propria vita, ad una circostanza particolare, la selva. Nessuno di noi racconterebbe di sé in questo modo e verosimilmente tenderebbe a particolareggiare il più possibile la narrazione dei fatti. Presumiamo quindi che i versi danteschi abbiano voluto costituire un richiamo all’attenzione.

Fondamentale per la comprensione del testo è il verbo mi ritrovai. Com’è possibile ritrovarsi in un bosco senza accorgersene, come dichiarerà esplicitamente nella quarta terzina? Bene, la valenza polisemica del verbo non sia casuale e il significato vada ricercato in una direzione personale che sposta il significato sulla consapevolezza della propria condizione, più che su un semplice trovarsi in un preciso luogo. Dante non sa ricostruire il percorso che l’ha portato fin lì ma l’importante è che adesso sia tornato nella piena coscienza di sé e abbia ritrovato se stesso anche se la situazione non promette bene.

Ma tornando alla domanda iniziale, com’è stato possibile questo inavveduto smarrimento? Da dove scaturisce questa ellissi biografico-narrativa? In realtà, chi ha pratica di escursioni nei boschi sa che è facile smarrirsi anche su sentieri nettamente tracciati: basta un attimo di distrazione al momento sbagliato e manchiamo la deviazione necessaria. E proseguendo rischiamo di accumulare altri errori e poi nel tentativo di rimediare anche di peggiorare ulteriormente la situazione. In ogni caso, recuperare la retta via, per dirla come il poeta, sarà sempre lungo e faticoso.

Lo stesso vale nella vita: dopo tante piccole deviazioni, concessioni e deroghe che troviamo sempre il modo di giustificare, ci allontanano a tal punto dalla linea prefissata che quasi non ricordiamo più quale fosse. Ed è esattamente questa la condizione che Dante cerca di descrivere. E anche lui, uomo fragile e peccatore, vorrebbe istintivamente nascondersi dietro deboli giustificazioni e si sforza di credere di essersi smarrito perché era pien di sonno a quel punto. E come dargli torto? Il sonno, l’assopimento, la stanchezza, l’annebbiamento della coscienza ci fanno abbassare la guardia, ci rendono inconsapevoli e aprono le porte alla fantasia. E le fantasie sono il più fallace e illusorio inganno, al quale più facilmente e, perché no, piacevolmente cediamo.
Per questo motivo nel Paradiso terrestre Beatrice stessa leverà contro il poeta un impietoso ma salvifico atto d’accusa, rimanendo poi in attesa di una sua totale contrizione e ravvedimento (Purgatorio, XXX):

Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m'era,
fu'io a lui men cara e men gradita;

e volse i passi suoi per via non vera,
immagini di ben seguendo false,
che nulla promission rendono intera. (vv. 127-132)

La simmetria tra le parole di Beatrice e quelle di Dante in merito allo sbandamento e al mettersi sulla cattiva strada è evidente e Beatrice non utilizza mezzi termini nel prospettare l’esito fatale di tanta perdizione, la “seconda morte”, ovvero la dannazione eterna, già paventata un secolo prima da San Francesco nel Cantico delle creature:

Tanto giù cadde, che tutti argomenti
alla salute sua era già corti,
fuor che mostrargli le perdute genti. (Purgatorio, XXX, vv. 136-138)

Quindi, l’unica via di salvezza è una sorta di terapia d’urto che risvegli il poeta dal sonno mortale che lo tiene in ostaggio, mettendolo brutalmente al cospetto di ciò che lo attenderà perseverando nelle sue intenzioni. Per questo nel canto successivo Beatrice riprenderà senza tregua affinché il poeta possa avere piena e completa coscienza delle sue mancanze e il ravvedimento sia completo (Purgatorio, XXXI, vv. 22 e segg.):

Ond’ella a me: "Per entro i mie’ disiri,
che ti menavano ad amar lo bene
di là dal qual non è a che s’aspiri,

quai fossi attraversati o quai catene
trovasti, per che del passare innanzi
dovessiti così spogliar la spene?

E quali agevolezze o quali avanzi
ne la fronte de li altri si mostraro,
per che dovessi lor passeggiare anzi?"

e ancora più chiaramente, ai vv. 58-60, ribadisce:

Non ti dovean gravar le penne in giuso,
ad aspettar più colpi, o pargoletta
o altra vanità con sì breve uso.

Ancora una volta il concetto insito nella vanitas era di ascendenza biblica e derivava verosimilmente direttamente dalla lettura del Libro di Qoelet, secondo il quale al di fuori della volontà di Dio tutto si riduce a vuotezza d’animo e a sterili divagazioni.

Diversamente da lui, Beatrice non prende nemmeno in considerazione altre motivazioni che non siano imputabili a Dante stesso, imputandogli soprattutto il non essere riuscito a perseverare nella difficoltà, cercando immediate consolazioni e tradendo perfino l’arte che gli era stata donata. Dante, forse più umanamente e in un certo qual modo vittima di se stesso e del mondo, prima di iniziare il viaggio verso la redenzione, nelle tenebre della selva oscura ancora ragionava da uomo mortale e si schermava dalle proprie responsabilità invocando un sonno obnubilante come causa e giustificazione della sua perdizione.

Quando Dante scrive il poema, ormai è tornato sano e salvo da questo incredibile viaggio di redenzione e il primo, tangibile segno del tornare alla vita è proprio attraverso la poesia, riappropriandosi di quell’arte che si era vanificata in mille sterili rivi:

Tant’è amara che poco è più morte; 
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Quindi, sebbene solo ripensare al tenebroso viaggio lo terrorizzi quasi come la morte, non ci risparmierà alcun dettaglio perché tutti possiamo giovarci dell’eccezionale offerta che gli è stata donata. Di quel sonno soffocante, evidentemente, non c’è più traccia e la Commedia stessa è lì a dimostrarcelo.


Molti secoli dopo (era il 1797), Francisco Goya disegnerà una celebre acquaforte traboccante di oscure figure dal titolo Il sonno della ragione genera mostri. Il contesto, il significato e la cultura sono probabilmente diversissimi, ma non si trattò forse di un’altra definizione, se vogliamo più moderna e laica, della debolezza della condizione e della natura umana?

Francisco Goya, El sueño de la razon produce monstruos

Concludendo, Dante, in apertura della sua opera più importante, confessa tutta la sua umanità e le sue parole risuonano cupe tra quegli alberi oscuri, così come risuonano cupe nel torpore del nostro vivere quotidiano, distratto e incasellato; sono un richiamo a rimanere vigili per non accorgersi di aver perduto la retta via quando ormai è troppo tardi per rimediare.



10 risposte a “Sui versi iniziali della Divina Commedia di Dante Alighieri”

  1. Caro Nicola ti ringrazio dell’attenzione al mio blog motivata dal mio apprezzamento al tuo commento su francesco il film di liliana Cavani.
    Un blog corposo il tuo che mi riprometto di leggere quando avrò risolto di fastidi dei miei occhi.
    Grazie ancora‼️

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    1. Grazie, la lettura sui dispositivi elettronici purtroppo è terribilmente stancante. A presto e di nuovo grazie per la fiducia.

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  2. Complimenti per questa bellissima lezione su Dante!!!! Mi ha veramente affascinata!!! Grazie!!! 🙂

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    1. Se avrai voglia ce n’è un’altra in arrivo (di pari passo con il programma ☺️)

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      1. Certo che ne ho voglia!!! Sono curiosa e di imparare non mi stanco mai!!!! Purtroppo non ho fatto studi classici, quindi ho fame e sete di questi argomenti approfonditi!!
        Sono venuta a cercarti perchè non riesco più a vederti sul mio reader, ecco perchè non mi sono palesata prima!!!! 🙂

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      2. Grazie doppio, allora. Ricontrolla che non si siano spente le impostazioni di notifica, magari togliendo e selezionando di nuovo “Segui”. In alternativa, se non funzionasse, puoi iscriverti anche con la posta elettronica

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  3. Ok, aspetto il prossimop post così vedo quello che accade, In alternativa mi iscriverò con la posta elettronica!!! 🙂

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  4. […] apertura della Commedia, Dante ci narra il celebre smarrimento nella “foresta oscura” (vedi qua per approfondire), l’allontanamento dalla “retta via” e, dopo molto spavento, conclude con il […]

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  5. […] vita pericolosamente incline al peccato, come già ho avuto modo di raccontarvi negli articoli Sui versi iniziali della Divina commedia e Dalla “selva oscura” alla selva dei suicidi. Ma il successivo, incredibile e […]

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  6. […] a me interessa quanto accade nella “selva oscura” (della quale ho già trattato: Sui versi iniziali della Divina Commedia di Dante Alighieri, e Dalla “selva oscura” alla selva dei suicidi, nella Divina Commedia di Dante Alighieri). Il […]

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