Ripercorrere la storia del rapporto tra poeta e donna amata sarebbe un viaggio assai lungo e tortuoso, anche volendone evidenziare pochi tratti essenziali. Ma veramente, fra tutti, credo che il caso di Dante e Beatrice sia unico per qualità, intensità e risultato poetico. Ma prima di iniziare fissiamo qualche punto.
Noi sappiamo che Dante era sposato con Gemma Donati, appartenente a una nobile e potente famiglia fiorentina di parte nera, sua avversaria tra l’altro, ma i documenti storici non ci dicono quasi niente della reale vita privata e coniugale del poeta; sappiamo che da lei ebbe quattro figli ma Gemma non è mai ricordata nei suoi scritti.
Al contrario, l’opera poetica di Dante è riempita piuttosto (con qualche ‘distrazione’) dalla carismatica figura di Beatrice. E di lei cosa sappiamo? Le ricerche storiche, suffragate dalla netta posizione assunta già da Giovanni Boccaccio, la identificano in Beatrice (o Bice), figlia di Folco Portinari e andata in sposa giovanissima a Simone de’ Bardi, quindi una figura reale. Secondo la tradizione, ripresa da Dante, la giovane morì nel 1291, si presume dopo il parto.
Spostiamo l’attenzione adesso sul lato artistico-poetico. La ‘storia’ di Dante e Beatrice è narrata dallo stesso poeta nella Vita nuova, scritta dal 1292 al 1295, un’opera in 42 capitoli dove si alternano brani in prosa componimenti poetici, sonetti e canzoni, di approfondimento e riflessione; per questa particolarità compositiva tecnicamente l’opera si definisce un prosimetro. E tale narrazione scaturisce da un episodio molto particolare e tragico, ovvero come già anticipato poco sopra la morte di lei.
Catalogare la Vita nuova una biografia sarebbe fuorviante, giacché i fatti che vi sono narrati non rispondono a nessuna realtà storica, eppure la biografia è il genere letterario che meglio qualifica questo scritto. Che dire allora? È più corretto intenderla come una “biografia ideale”, ovvero come un percorso biografico che non risponde a esigenze storiche e narrative ma piuttosto a esigenze spirituali e narrative le cui tappe di questo viaggio sono la progressiva messa a fuoco di altissimi valori spirituali e affettivi. Dante arriva per gradi a comprendere questa verità e attorno alle poesie costruisce una storia che lo conduca su una via di crescita ed elevazione. Con queste premesse, se Beatrice sia stata una donna reale o meno, se vi sia mai stata una qualche relazione col poeta, diventano questioni oziose e soprattutto del tutto secondarie rispetto alla meravigliosa cattedrale che Dante ha costruito attorno alla sua donna. Ma andiamo con ordine e lasciamo a Dante la parola per narrarci del suo primo incontro con Beatrice. Così leggiamo nel cap. I:
In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit vita nova. Sotto la quale rubrica trovo scritte le parole quali è mio intendimento d'essemplare in questo libello, e se non tutto, almeno la loro essenzia.
Quindi nella vita di Dante c’è uno spartiacque e coincide col primo incontro con Beatrice, alla tenera età di nove anni; ne consegue che la vita del poeta si divide fra prima e dopo la conoscenza di Beatrice. Anche Francesco Petrarca nel Canzoniere adotterà una simile cesura ma sarà per separare le poesie scritte prima da quelle scritte dopo la morte della sua Laura. Ecco, per Dante la morte non sembra essere un vincolo né un limite; certo: la prematura morte della donna amata sarà un evento catastrofico ma gli darà l’occasione e lo spunto per guardare avanti, oltre le lacrime, e cercare nuovi percorsi di ispirazione.
Dopo quel primo, silenzioso incontro da ragazzini, i due si rivedono esattamente dopo altri nove anni (molto velocemente sottolineo il valore simbolico del nove, quadrato di tre, numero trinitario), diciottenni entrambi quindi e in quell’occasione la visione di una solare Beatrice coinciderà con il suo primo saluto:
[...] e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi da tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti [...].
Per la prima volta, quindi, ode la sua voce e nell’occasione specialissima del saluto. Esatto, perché per il poeta stilnovista il saluto della donna amata equivaleva a salute; gli esempi non potrebbero contare, ne cito uno fra i molti: la sola vista della donna amata, ci racconta Guinizzelli, impediva i mali pensieri impedendo qualsiasi traviamento.
La storia va avanti, con Dante che stende lodi eccelse della donna amata, sebbene nascondendola dietro donne specchio, cioè figure fittizie per distogliere l’attenzione da Beatrice e metterla al riparo dalle malelingue, secondo una prassi che risaliva già alla poesia cortese provenzale del XII-XIII secolo. A lei si riferisce sempre con attributi superlativi, ciononostante il troppo indulgere l’attenzione su ‘altre’ donne la infastidisce al punto da indurla a togliere il saluto a Dante, ovvero quanto di peggio potesse accadere a un poeta stilnovista innamorato.
Ma tutto fino a qua, più o meno, si svolge secondo canali rodati, almeno fintantoché Dante non decide di rovesciare la scacchiera narrativa: Beatrice muore. L’evento non giunge del tutto inaspettato giacché fin dal loro secondo incontro, lui vive sempre più spesso sogni premonitori ai quali né lui né coloro a cui chiede aiuto riescono a dare sul momento spiegazioni. Alla fine dello stesso cap. III scrive:
Lo verace giudicio del detto sogno non fue veduto allora per alcuno, ma ora è manifestissimo a li più semplici.
Adesso quindi che il destino ha mostrato le sue carte, i sogni acquistano il più luttuoso dei significati. Fino a quel punto nessun poeta stilnovista aveva affrontato il tema della morte della donna amata, semmai la propria, come per esempio l’amico Guido Cavalcanti nella bellissima e commovente ballata Per ch’i’ no spero di tornar giammai. L’evento ovviamente è destabilizzante e potrebbe far naufragare (tema caro invece a Petrarca) il poeta, ma la grande battaglia di Dante sarà proprio trovare una soluzione a questo dramma. Gli esegeti della Vita nuova hanno discusso a lungo, e il dibattito non è ancora concluso, sul significato dell’opera e sulla sua interpretazione. Indubbiamente Dante, da grande innovatore e instancabile ricercatore, voleva superare la concezione dell’amore così come era stato codificato dalla tradizione avviata da Guinizzelli, ampliando il solco tracciato dalla poesia cortese, e arricchita da Cavalcanti di fortissime connotazioni psicologiche, a vantaggio di un amore superiore, che voleva superasse la portata umana. Be’, sarà veramente così.
Forse, nell’interpretazione della Vita bisognerebbe recuperare di più se non la mistica dimensione certamente quella spirituale e religiosa, sulla quale, a mio avviso Dante insistette molto. Si veda per esempio, il tragico sonetto che conclude il cap. XLI che ricorda piuttosto da vicino il solitario e mesto andare dei discepoli di Emmaus, narrato nel Vangelo di Luca.
E in effetti, nel capitolo successivo, ci sarà la grandiosa rivelazione, come si legge nelle terzine del sonetto finale:
Vedela tal, che quando 'l mi ridice,
io non lo intendo, sì parla sottile
al cor dolente, che lo fa parlare.
So io che parla di quella gentile,
però che spesso ricorda Beatrice,
sì ch'io lo 'ntendo ben, donne mie care.
Come in Emmaus, i discepoli non riconoscono la presenza di Gesù fino all’atto dello spezzare il pane durante la cena, e tuttavia poi dicono tra loro che quando lungo la via parlavano con questo sconosciuto si sentivano il cuore ardere nel petto, così Dante, pur non riuscendo a esprimere compiutamente quanto prova sente dentro di sé la forza del sentimento.
Ma è cosciente dei suoi limiti (che non sono solo poetico-artistici ma anche morali) e così conclude nel cap. XLII:
Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso [...].
Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono [...], io spero di dicer di lei ciò che non fu detto d'alcuna.
Quindi ormai Beatrice è donna del Paradiso a tutti gli effetti: vita celeste da un lato e vita terrena e mortale dall’altro, anzi, vita pericolosamente incline al peccato, come già ho avuto modo di raccontarvi negli articoli Sui versi iniziali della Divina commedia e Dalla “selva oscura” alla selva dei suicidi.
Ma il successivo, incredibile e risolutore incontro fra Dante e Beatrice è narrato nella Divina commedia (Purgatorio, XXX, vv. 40-48), dopo che il poeta ha raggiunto la vetta della montagna del Purgatorio e ha assistito ad una scenografica e allegorica processione, che tra l’altro costituisce uno dei brani più grandiosi della Commedia; al termine, su di un carro appare una donna sfolgorante di luce che Dante sul momento non riconosce ma, ci racconta:
Tosto che nella vista mi percosse
l'alta virtù che già m'avea trafitto
prima ch'io fuor di puerizia fosse,
volsimi alla sinistra con rispitto
[...]
per dicere a Virgilio: "Men che dramma
di sangue m'è rimasa che non tremi;
riconosco i segni dell'antica fiamma!"
Quindi Dante, ancor una volta inconsapevolmente, riprendendo la simbologia di Emmaus, riconosce i segni, riconosce il sentimento, riconosce la punta che l’aveva trafitto ancora novenne, e tutto ciò accade prima di vedere, prima di capire. E questo gli è possibile perché lo straordinario amore per lei, solo assopito dopo tanti anni, è ancora lì, e ne riconosce “l’antica fiamma”. Queste sono anche le ultime parole che rivolgerà alla sua fedele guida Virgilio (che non potrà accompagnarlo nel Paradiso in quanto non battezzato) e non sono scelte a caso poiché sono prese in prestito dall’Eneide (4, 23); quale elogio e commiato migliore?
Ma a noi interessa questo sentimento potente che ha attraversato tempo, spazio, morte. Per Beatrice si è già evoluto in un valore assoluto e trascendente, per Dante è ancora molto umano e passionale e infine anche doloroso giacché troverà in Beatrice un severo inquisitore perché Dante si ravveda.
Concludendo, Dante approfondisce la dimensione psicologica che la letteratura italiana della fine del Duecento e del Trecento andava indagando, in particolare sull’amore ma in una direzione tutta nuova. Dante essere umano non ha più davanti a sé Beatrice, non per questo i suoi sentimenti decadono; tutt’altro: ci dimostra come l’amore (lui l’avrebbe scritto con la A maiuscola) possa proseguire e perseguire i suoi fini salvifici anche dopo la morte. E pensare che nemmeno cinquant’anni prima Giacomo da Lentini nella poesia Meravigliosamente sentiva tanto pressante il bisogno di vedere la sua donna da essere tentato di farne un ritratto, in modo d’averla sempre con sé.
Ma tutto questo era già storia vecchia e di nuovo vediamo la barca dell’ingegno poetico di Dante prendere il largo, verso mari non ancora esplorati.
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