Nel primo articolo dedicato a questo argomento, ho tentato di mettere a fuoco la duplice propensione della personalità di Dante nei confronti della sete di conoscenza: da un lato spingendo verso il continuo rinnovamento e miglioramento, dall’altro imponendo una sorta di autolimitazione, le ragioni della quale possono essere individuate nell’evitare il rischio di cadere nel peccato di superbia e nella presunzione di poter bastare a se stessi. Si potrebbe quindi cogliere nelle parole del poeta fiorentino su questo tema tanto il desiderio di perfezionamento quanto la necessità di evitare i pericoli sempre in agguato.
Gettare uno sguardo oltre le capacità umane
Nel canto III del Purgatorio, Dante affronta nuovamente la questione del limite, sia insito nell’essere umano, sia nei confronti della conoscenza. Qual è il contesto? Rispetto all’Inferno, sotterraneo e buio, il Purgatorio è una montagna al centro di un’isola agli antipodi esatti di Gerusalemme, quindi a cielo aperto. Per questo motivo, come un vero e proprio ritornello, ogni schiera di anime purganti che Dante incontra rimane stupefatta osservando che il suo corpo getta ombra sul terreno, essendo ancora un vero corpo di carne. Dopo un piccolo equivoco su questo argomento, Virgilio – che invece è uno spirito incorporea – gli spiegherà che le anime, sebbene completamente inconsistenti, hanno ancora intatte le percezioni dei sensi e quindi patiscono il dolore.
A sofferir tormenti, caldi e geli simili corpi la Virtù dispone che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli. Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone. (Purg. III, 31-36)
Fin qua, non possiamo che concordare: addentrarsi nel mistero della Trinità non è certamente al di qua delle nostre capacità, anzi: intestardirsi su questo è pura follia. In realtà, Virgilio nella sua spiegazione si spinge oltre:
State contenti, umana gente, al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria e disïar vedeste sanza frutto tai che sarebbe lor disio quetato, ch’etternalmente è dato lor per lutto: io dico d’Aristotile e di Plato e di molt’altri»; e qui chinò la fronte, e più non disse, e rimase turbato. (Purg. III, 37-45)
Virgilio si lancia nella direzione di quella che a prima vista parrebbe una vera e propria castrazione intellettuale. Ma è veramente così? Fulcro della spiegazione è il verso 37: “accontentatevi di ciò che vi è dato di sapere.” Il recinto all’interno del quale Virgilio pone i limiti della conoscenza è in realtà per il bene stesso degli uomini e per evitare loro cocenti frustrazioni. E anche su questo potremmo concordare, ma la questione è in realtà ancora più articolata.
Narrando della “selva oscura” all’inizio dell’Inferno, Dante ci fa capire come avesse ben chiara la via d’uscita, rappresentata dal monte dietro il quale scorge la luce, nondimeno non riuscì a raggiungerla; in altre parole, si scontra una prima volta con i limiti della sua umanità, nello specifico impedita dalla condizione di peccato in cui si trova.
Adesso, nel Purgatorio, con le altre anime instradati sulla via della salvezza, il rischio si fa forse anche maggiore e inflessibilmente vige lo spirito di umiltà e moderazione; il rituale raccomandato a Virgilio da Catone di cingere Dante con un giunco verte proprio a questo: ricordare che “siamo servi inutili” (Lc. 17, 10); Cristo stesso, accingendosi a lavare i piedi agli apostoli dopo l’ultima cena, si era cinto la veste come un loro servo.
Ma quanto umili e inutili? La seconda parte della spiegazione di Virgilio (vv. 40-45) suona alquanto oscura. Sembra chiaramente di intendere che coloro i quali ambiscono di risolvere ogni segreto con la pura speculazione intellettuale siano inevitabilmente destinati a un’eterna insoddisfazione, cosicché il loro desiderio di conoscenza si ritorce contro loro stessi fino a consumarli nel fallimento; per usare le parole di Dante: un desiderio destinato a rimanere senza alcun frutto. E poi, a titolo di esempio, cita espressamente Platone, Aristotele “e molt’altri” del tempo passato. Attraverso la voce di Virgilio, il fiorentino in realtà non ripudia affatto i frutti dei grandi pensatori del mondo antico ma vuole tuttavia sottolineare la finitezza del pensiero umano, per quanto in alto possa spingersi. Del resto, lui stesso dopo la morte di Beatrice si era duramente impegnato, studiando proprio di filosofia, nel tentativo di dimostrare per primo a se stesso che la poesia poteva andare oltre l’amore…
Tutto vano: l’esperienza filosofica, che pure gli è stata così indispensabile e amica per superare dolore e disperazione, ad un certo punto marca il passo e solo la Fede potrà aggiungere i gradini mancanti verso la vera soddisfazione. Del resto, come dimenticare la severa prospettiva cristiana del tempo, secondo la quale la vera felicità non era di questo mondo, e al contrario, ogni apparente soddisfazione di quaggiù era una pericolosa distrazione dalla “dritta via”?
Non per nulla, Beatrice, lasciata alla fine della Vita nuova come indicatrice di una vocazione cristiana, tornerà in tutta la sua gloria quale esplicita personificazione della Fede stessa, accompagnando Dante nel Paradiso.
E Virgilio? Nonostante la felice profezia che la cultura medievale gli tributava in senso cristologico, quando vaticinava nelle Bucoliche un’imminente età dell’oro e la nascita di un bambino che avrebbe portato pace e prosperità, profezia grazie alla quale era stato eletto guida di Dante attraverso l’Inferno e il Purgatorio, dovrà fermarsi nel Paradiso terrestre, sulla cima della montagna del Purgatorio stesso, senza poter andare oltre. L’impedimento più evidente è dovuto al fatto che non era stato battezzato per esser vissuto, sono parole sue, “nel tempo de li dèi falsi e bugiardi” (Inf. I, 72); l’essere stato comunque un uomo probo e illustre gli aveva garantito il Limbo, ma niente di più. Ma è solo questo? Il motivo è teologicamente più che sufficiente ma non dobbiamo dimenticare che Virgilio incarna la ragione e a questo punto si intuisce facilmente l’intersezione delle due strade e l’esaurirsi dell’una a vantaggio dell’altra.
Nel novero dei “molt’altri” sa di esserci anche lui e per questo, conclude Dante, “chinò la fronte,\ e più non disse, e rimase turbato”. La ragione a un certo punto dovrà farsi da parte e lasciare spazio alla fede. Chissà se anche Dante non fosse stato altrettanto turbato.
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