Le ambizioni di un artista geniale
Mi scuso in anticipo per la lunghezza di questo articolo; ho fatto il possibile per ridurre al minimo essenziale ma l’argomento è veramente vasto e complesso.
L’intera esperienza artistica di Dante Alighieri è sempre stata connotata dalla sperimentazione; mai soddisfatto si è confrontato costantemente con ogni genere di novità che potessero aggiungere qualità e spessore al suo lavoro: novità linguistiche, tematiche, letterarie. E nemmeno ha mai fatto mistero di questa sua ambiziosa volontà, riproponendo più volte l’immagine metaforica della nave del suo ingegno con la prua sempre rivolta al largo, salpando verso mari il più delle volte inesplorati. Tale chiara coscienza non l’ha trattenuto nemmeno dall’assumere posizione antipatiche rispetto ai suoi compagni stilnovisti; penso in particolare a Cino da Pistoia al quale rispose, forse nemmeno troppo garbatamente, che il suo modo di far poesia apparteneva a quello che per Dante era ormai un passato remoto:
Io mi credea del tutto esser partito
da queste nostre rime, messer Cino
ché si convien omai altro cammino
a la mia nave più lungi dal lito.
Anche se riflettiamo sulla biografia culturale del Sommo poeta è difficile dargli una collocazione univoca: politico, letterato, teologo, filosofo, geografo, astronomo e astrologo? molteplici discipline hanno occupato momenti e proporzioni differenti della sua vita, ma tutte hanno contribuito a formare un artista poliedrico e completo. A tal proposito, talvolta capita di leggere quali siano le fonti della Commedia: indubbiamente ce ne sono, molte, moltissime, e sono state tutte individuate e catalogate. Ma cosa sarebbero tutte loro, senza il crogiolo della inesauribile fantasia dell’autore? Credo di non far torto a nessun creditore se, alla fin fine, affermo che la fonte ultima della Commedia è Dante stesso.
Ma lo scopo di questo articolo non è tanto lodare le ovvie qualità di Dante ma piuttosto riflettere sui suoi limiti. Partiamo in astratto: è evidente che il desiderio di conoscenza giunge prima o dopo a scontrarsi con il confine mai superato in precedenza, talvolta in valore assoluto. Negli stessi versi a Cino appena letti, la nave di Dante si allontana dalla costa, e questo significa perdere i riferimenti della navigazione a vista, che al tempo era la prassi più sicura. A quel punto, che fare? Dante aveva chiarissimo tale ostacolo, motivo per cui già negli anni novanta del Duecento, al termine della Vita nuova, non si sentiva pronto ad affrontare la prova successiva dell’opera che aveva forse già in testa, un piccolo germe che avrebbe prodotto, a tempo debito, una delle piante più grandiose di sempre. Ma nel 1294 Dante sentiva che il terreno è ancora inadatto.
“[…] apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei.
E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna” La vita nuova, 43
Spero di scriver di lei, ciò che mai fu scritto di nessuna. Lui avrebbe lodato la sua donna come mai era stato fatto per alcuna. Ma non era ancora pronto per questo, e dovrà faticare non poco, studiando non solo di letteratura e grammatica, ma di filosofia e teologia.
Indipendentemente dalla lode di Beatrice, Dante aveva un’idea altissima dell’arte, della propria in particolare, perché vi ravvedeva uno strumento che avvicina l’uomo a dio attraverso il dono che più gli è appartiene: l’intelligenza. Del resto, sono parole di Dante, anche se messe in bocca a Ulisse:
Considerate vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza. (Inf, XXVI, 118-120)
E proprio qua, inizia uno scivolamento verso una direzione imprevista: l’intelligenza può tessere nella mente un pericoloso labirinto, nel quale è anche possibile smarrirsi irrimediabilmente, come in una selva oscura. O almeno questo è quanto si credeva al tempo.
Il viaggio di Ulisse
Nel canto XXVI dell’Inferno Dante elabora proprio una versione tutta sua dell’ultimo viaggio di Ulisse: l’eroe, dopo gli anni di vane peregrinazioni che seguirono la guerra combattuta sotto le mura di Troia, finalmente torna a casa dalla famiglia. Eppure percepisce dentro di sé un’inquietudine profonda che gli impedisce di trovare pace e quindi nemmeno dopo un decennio di avventure strabilianti il suo spirito è pago:
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto. (Inf. XXVI, 94-102)
L’ambizione quindi di divenire “esperto” del mondo è la spinta che muove Ulisse e i suoi a lasciare tutto dietro di sé. È tradizionalmente noto come questa fosse la più spiccata qualità dell’eroe omerico e alla fine, nella redazione dantesca, la principale motivazione della sua dannazione.
Odisseo quindi lascia Itaca. Recuperata la ciurma di sempre che con lui ha condiviso dieci anni di peripezie, salpa con la più ambiziosa destinazione di sempre: l’ignoto, che in questo caso è rappresentato dal superamento delle Colonne d’Ercole.
Una premessa è necessaria: Ulisse sconta la sua pena eterna per essere stato un consigliere fraudolento, ovvero per aver tratto in inganno proprio i suoi compagni e averli condotti a morte certa pur di soddisfare la sua personale brama di conoscenza. In realtà, all’atto pratico, il peccato di Ulisse non è determinante per la rovinosa fine della sua nave, la quale, intrapresa quella rotta, comunque sarebbe perita.
Usciti dallo Stretto di Gibilterra e poi, si dirigono verso ovest, proseguendo nel “folle volo” per giorni e giorni, fintantoché, offuscata dalle nebbie della lontananza, all’orizzonte vedono apparire la forma di un’isola montuosa. Questa, la montagna del Purgatorio, sarà l’ultima cosa che gli uomini dell’equipaggio vedranno: sotto la nave si apre uno spaventoso gorgo che inghiotte tutto quanto, lasciando appena il tempo agli uomini di trasformare le loro grida di gioia in un pianto disperato.
All’inizio della narrazione, Dante premette questi versi:
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi. (Inf., XXVI, 19-24)
Allora mi dolsi, e oggi ancora mi dolgo
quando ripenso a ciò che vidi,
a trattengo l’ingegno più di quanto non sia solito fare,
perché non corra troppo senza una virtù che lo guidi;
così che se la mia buona stella o qualcuno ancor maggiore
mi ha dato delle capacità (’l ben), io stesso non me ne privi.
Ma cos’è accaduto quindi realmente? Ulisse perisce davvero perché ha violato i confini imposti alla conoscenza? Così parrebbe:
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta (vv. 106-109)
Se ci pensiamo, lo stesso peccato originale nasce proprio dal desiderio di superare il confine alla conoscenza posto (o imposto) all’uomo. Quindi l’ambizione a raggiungere il sapere è insita nell’essere umano, è veramente… originale.
“Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.” (Genesi 3, 1-7)
Per Eva mangiare quel frutto pareva cosa gradita per “acquistare saggezza” ma così facendo infrange il comandamento imposto da Dio e per tanto è severamente punita e, con Adamo, cacciata. È evidente come conoscenza significhi libertà e non è questo il luogo né sono la persona giusta per discutere le implicazioni teologiche del brano biblico; tuttavia è altrettanto chiaro come ancora al tempo di Dante (e ancora per secoli e secoli a seguire) la Chiesa imponesse la sua egemonia dottrinaria e in senso più lato, culturale.
La questione dei talenti
Dal punto di vista umano, questa, rimane forse una grande contraddizione: Dio concede all’uomo intelligenza e libero arbitrio ma ne definisce i limiti operativi, probabilmente – e qui Dante gioca la sua più alta carta di fede – per il suo stesso bene. Egli non ha mai fatto mistero della serissima consapevolezza del proprio valore e per quanto esprimendosi al riguardo sempre con elegante velatura, sapeva benissimo di essere il più grande del suo tempo e “forse” di sempre:
così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido. (Par. XI, 97-99)
Che significato ha, quindi, l’excusatio non petita recitata ai vv. 19 e segg. di Inf. XXVI? Credo che nasca esattamente dalla remissiva accettazione di una condizione della quale Dante non riesce a comprendere fino in fondo il significato. Certo, arroganza e superbia sono in agguato, lo sa bene, e dunque la via della conoscenza è come uno scivoloso crinale la cui altitudine ci consente di vedere più lontano ma, parimenti, alla minima distrazione ci farà cadere giù, tanto più rovinosamente quanto più in alto siamo. Gli esempi che potremmo evocare sono numerosi ma mi paiono particolarmente interessanti da esaminarne un paio, tratti dal Purgatorio e non è certamente una casualità che si leggano proprio lì, ovvero nel luogo in cui si sancisce il progressivo allontanamento da ogni ombra del peccato.
Il primo episodio è l’apertura stessa della seconda cantica che recita:
Ma qui la morta poesì resurga, o sante Muse, poi che vostro sono; e qui Calïopè alquanto surga, seguitando il mio canto con quel suono di cui le Piche misere sentiro lo colpo tal, che disperar perdono. (Purg. I, 7-12)
Il riferimento mitologico, letto nelle Metamorfosi di Ovidio, racconta che le nove figlie di re Piero dell’Emazia, superbamente convinte della loro maestria, sfidarono le muse in una gara di canto; ma come sempre accade quando gli umani vogliono elevarsi fino al confronto con le divinità, per loro finisce sempre tragicamente. Calliope, con la sua voce mirabile, superò inesorabilmente le sorelle che, punite per la loro impudenza, vennero trasformate in gazze (piche), uccelli dallo sgraziato e antipatico canto. È evidente una sorta di autocensura da parte del poeta che si sente vulnerabile allo stesso peccato delle nove sorelle e non vuole ripeterne l’errore. Il secondo episodio riferisce l’incontro fra Dante e l’amico defunto Casella, narrato nel canto II del Purgatorio. Non conosciamo niente di costui eccetto quanto emerge dalla Commedia stessa, ovvero le sue eccelse qualità di musicista. Tra lui è il poeta vi era stata strettissima e affettuosa amicizia ed ecco che avviene un fortunato incontro sulla spiaggia dell’isola del Purgatorio. Casella, ormai defunto, è appena arrivato con una nuova schiera di anime e dopo uno scambio di abbracci non proprio ben riuscito, Dante, conoscendo le doti dell’amico, gli domanda di cantare. La meraviglia per quella voce è tale che:
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente. (vv. 115-117)
Le anime, giunte lì per iniziare il cammino di purificazione che le porterà a salire al Paradiso, ovvero alla beatitudine eterna, si fermano ad ascoltare Casella. Di nuovo, i carismi elargiti a un essere umano tornano a riempire l’esistenza, sollevano dalle passioni e sanano le ferite ma non possono bastare alla salvezza e così, in quel luogo di penitenza dove il rigore è ancora più severo, la breve distrazione sarà rimproverata e corretta aspramente da Catone, guardiano del Purgatorio. Il tempo che scorre è forse la chiave di volta per comprendere. La Chiesa deprecava la pratica creditizia non tanto per il profitto in sé ma perché si mercanteggiava un bene che non ci apparteneva, ovvero il tempo. Solo Dio ne era custode, l’uomo ne rivendicava un possesso effimero. E come tutte le azioni dell’uomo, la stessa verso la salvezza era sottoposta alle leggi del tempo, scaduto il quale cessava ogni possibile ravvedimento. Per l’appunto, diversamente da Inferno e Paradiso, istituiti per l’eternità, il Purgatorio è l’unico dei tre regni ultraterreni la cui stessa esistenza è limitata nel futuro e quindi soggetta alle leggi del tempo, che lì, come nel nostro mondo, si conta e si misura. E dunque il tempo, come qualunque bene finito, ha un valore. In conclusione, Dante è un uomo di fede e per quanto in più occasioni si scagli con veemenza gli uomini che danno vita alla sua veste istituzionale, accetta con remissione la dottrina della Chiesa (non avrebbe comunque avuto molta scelta). Su questo argomento è un’accettazione più indigesta poiché se è vero che il peccato di orgoglio è in agguato, è altrettanto vero che siamo di fronte a uno degli aspetti più contraddittori della condizione culturale dell’uomo medievale e non solo. L’etica della scienza è argomento quanto mai attuale e ramificato in direzioni che Dante non poteva nemmeno immaginare; concettualmente non è cambiato niente. La mia opinione ovviamente non ha alcun significato, trovo paradossale che ancora oggi si debba disquisire sul rapporto tra fede e scienza (e per estensione “il sapere”) come se l’una, prima o poi, dovesse escludere l’altra. Dante stesso ha portato al limite questa opposizione, facendoci capire una sorta di usurpazione della prima sulla seconda. Giusto o ingiusto è un argomento insolubile. Ma Dante, pur nella prospettiva del suo tempo, aveva visto giusto nell’individuare fra fede e conoscenza – intesa anche come “pacchetto unico” antropologico-culturale (anche se lui non poteva conoscere questo termine – un solco incolmabile. Ne avrebbe fatto le spese con la redazione del saggio De Monarchia – messo all’indice dei libri proibiti – separando le funzioni della Chiesa da quelle dello Stato; mi sorprende quindi come anche nel nostro tempo uomini di scienza un uomo di scienza, un astrofisico, sebbene chiacchierato e anche un po’ ridicolizzato, abita sentito la necessità chiudersi volontariamente al di qua di un limite, oltre il quale c’è solo la fede. Concludo con le parole con le quali Kant definitiva l’illuminismo:
L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro.
Dante si sarebbe rincuorato se avesse potuto conoscere Kant? C’è di che riflettere.
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