Fra i brani della Divina Commedia che più amo leggere e rileggere c’è sicuramente la storia di Buonconte da Montefeltro, narrata nel Canto V del Purgatorio. Egli era figlio del celebre Guido da Montefeltro, stirpe ghibellina del casato dei Signori di Urbino ma della sua biografia, oltre ai nobilissimi natali, sappiamo poco: nacque attorno al 1250 e intraprese la carriera militare, dando prova di sé il 12 giugno del 1288 quando condusse alla vittoria gli aretini contro senesi e massesi (di Massa Marittima) nella battaglia delle Giostre del Toppo.
Ma la Lega guelfa toscana non si dette per vinta e così le due fazioni si prepararono per un’ultima, epica battaglia combattuta nella piana di Campaldino, ai piedi del castello di Poppi, l’11 giugno 1289 e si concluse con la definitiva sconfitta della parte ghibellina.
Gli aretini furono condotti in battaglia dal loro vescovo Guglielmo degli Ubertini e da Buonconte da Montefeltro e sul campo si scontrarono, si stima, più di ventimila uomini, con un leggero vantaggio dei guelfi.
Il furore di quella battaglia rimase impressa nella memoria di molti cronisti e vale la pena ricordare lo stesso Dante vi partecipò, fra le schiere fiorentine. Sappiamo dai vari racconti che entrambe le parti combatterono senza risparmio e senza pietà: molti che dovevano esser grandi si comportarono da vili e molti umili fanti si batterono come leoni e polvere e sangue segnarono indelebilmente il sabato di San Barnaba. Alcuni racconti sono letteralmente scioccanti: Dino Compagni (1246 ca – 1327), nella sua Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi (cap. X) scrive che nella mischia infernale della battaglia i fanti armati di coltello sventravano i cavalli allo scopo di far cadere i cavalieri, i quali, corazzati e impacciati com’erano, a terra perdevano il loro vantaggio e divenivano facili vittime di quelli stessi coltelli affilati:
[…] l’aria era coperta di nuvoli, la polvere era grandissima. I pedoni degli Aretini si metteano carpone sotto i ventri de’ cavalli con le coltella in mano, e sbudellavalli: e de’ loro feditori trascorsono tanto, che nel mezo della schiera furono morti molti di ciascuna parte. Molti quel dì, che erano stimati di grande prodeza, furono vili; e molti, di cui non si parlava, furono stimati.
In quella circostanza molti condottieri ghibellini persero la vita, compreso il vescovo Ubertini, e lo stesso accadde a Buonconte e al fratello Loccio ma il corpo di Buonconte non fu mai ritrovato ed è proprio a questo punto che entra in scena l’eccezionale fantasia creativa, e poetica, di Dante Alighieri a dare seguito e soluzione al mistero, lasciando proprio al cavaliere marchigiano il racconto dei suoi ultimi istanti.
Egli, mortalmente ferito, riuscì a trascinarsi fuori dal campo di battaglia e, sebbene perdendo molto sangue, raggiunse le sponde del torrente Archiano ma qui per il copioso dissanguamento perse la vista ma prima che le forze lo abbandonassero del tutto incrociò le braccia sul petto e, nel nome di Maria, spirò.
"Oh!", rispuos’elli, "a piè del Casentino
traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino.
Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola."
La sua era stata una vita violenta e quindi un diavolo dell’Inferno si affrettò a ghermirlo ma la sincera invocazione a Maria non rimase inascoltata e il diavolo dovette farsi da parte davanti all’angelo di Dio disceso a prendere con sé l’anima di Bonconte.
"Io dirò vero, e tu ’l ridì tra ’ vivi:
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: "O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l’etterno
per una lagrimetta che ’l mi toglie;
a io farò de l’altro altro governo!".
Il diavolo quindi frustrato e indispettito da questa tardiva “lagrimetta” che lo privava dell’ambita preda, scatenò le forze della natura: il vento addensò le nubi e le piogge si abbatterono sulla terra, precipitando nelle fosse e da qui nei torrenti che crebbero impetuosi. E così fece anche l’Archiano che raggiunse il corpo di Bonconte per trascinarlo con sé fino nell’Arno, nel quale andò perduto per sempre.
I versi che narrano la tempesta sono potentissimi, e non di meno lo sono quelli che raccontano la violenza gratuita che il diavolo riserva al corpo del cavaliere col solo scopo di sciogliere la croce salvifica delle sue braccia.
"Indi la valle, come ’l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e ’l ciel di sopra fece intento,
sì che ’l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde, e a’ fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;
e come ai rivi grandi si convenne,
ver’ lo fiume real tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato in su la foce
tovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce
ch’i’ fe’ di me quando ’l dolor mi vinse;
voltommi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse".
E così, come dietro un sipario di acque torbide e tempeste, si chiude la vicenda di Buonconte. Come tutte le anime del Purgatorio, chiede che si preghi per lui, anzi ancora di più giacché tutti lo reputano un’anima perduta all’inferno. Eppure per la seconda volta in poco tempo, Dante sperimenta quanto sia corto e fallace possa essere il metro di giudizio umano e quanto fuori bersaglio possa cadere. Già nel Canto III del Purgatorio, e considerando la geografia del luogo potremmo dire poche centinaia di passi prima, il Sommo Poeta aveva incontrato Manfredi di Svevia, morto scomunicato, la sua sepoltura profanata nottetempo per trafugarne il corpo e dispenderlo lontano. Eppure l’incontro avviene sull’isola del Purgatorio, sulla spiaggia della quale Manfredi attende il momento di poter entrare. E le sue parole non lasciano spazio a contraddizioni:
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.
[...]
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.
Senza mezzi termini Dante quindi mette in discussione l’infallibilità del Pontefice che aveva dichiarato la scomunica di Manfredi ed evidenzia tutta la miopia di una Chiesa troppo invischiata nelle questioni terrene e poco attenta a quelle del cielo. Come accennato, in modo analogo, Dante incontra l’anima di Buonconte che andava a testa bassa poiché da tutti era ritenuto dannato e nemmeno la moglie Giovanna lo piangeva né lo pregava; dimenticato quindi per il troppo frettoloso giudizio degli uomini. Per tale motivo con maggior insistenza si raccomanda a Dante perché rifersica sulla verità della sua condizione, in modo che su di lui possano profondersi i suffragi dei suoi cari, che tanto avvantaggiano il cammino delle anime del Purgatorio.
Mi domando se questa sensibilità non sia stata indotta in Dante dal suo essere stato accusato ingiustamente. Chissà?
Il discorso ci porterebbe ad allargare troppo il cerchio e sarebbero molti i temi di discussione e approfondimento che questi due ultimi personaggi suscitano, dallo stesso concetto di nobiltà a quello dei valori civili e morali. Per adesso mi fermo qua, godendo la bellezza di questa sceneggiatura poetica che Dante ha voluto regalarci.
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