Personalmente ritengo l’undicesimo canto del Paradiso uno dei più significativi dell’intero poema, per qualità, intuizione, capacità evocativa, volontà di ricerca spirituale e levatura teologica. Vediamo perché.
In apertura a parlare è San Tommaso d’Aquino, il quale, proseguendo la sua spiegazione dal canto precedente, ci istruisce su come la Chiesa, sul finire del XII secolo, avesse urgente bisogno di un sostegno contro gli assalti secolari, cosicché la Provvidenza
due principi ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida. (vv. 35-36)
ovvero dispose due figure di riferimento che le fossero da guida da un lato e dall’altro. Costoro furono San Domenico e San Francesco; e San Tommaso, domenicano, per dovere d’ospitalità, pur affermando che lodando l’opera dell’uno si lodano entrambi perché a un unico fine furono le opere loro, racconterà di San Francesco d’Assisi.
Dal verso 43 in avanti inizia la narrazione dei fatti storici della sua vita: il testo si apre con la meravigliosa e pacata descrizione delle pendici del monte Subasio:
Intra Tupino e l'acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d'alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
Di questa costa, là dov’ ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange. (vv. 43-51)
Inutile sottolineare le perfette nozioni geografiche di Dante, che probabilmente aveva ben conosciuto quelle terre nel corso dei suoi viaggi a Roma. Particolarmente interessante l’ultima terzina ovvero il pronome dimostrativo “questo”, riferito al vero sole, poiché secondo la cosmologia dantesca ci troviamo proprio nel IV cielo, quello del Sole, quello degli Spiriti sapienti. Il particolare riferimento a quando il Sole sorge “talvolta” in direzione del Gange, deriva dalla convinzione medievale che quella fosse l’indicazione dell’Est perfetto. Ebbene, ad Assisi nacque un altro sole, e da quel verso inizia la stupenda metafora della vita del Santo, paragonata a una nuova luce, tanto che lo stesso nome di “Ascesi”, Assisi, cólto recupero etimologico del toponimo, ancora si sottolinea il salire verso l’alto:
Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole. (vv. 52-54)
E la metafora continua:
Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto (vv. 55-57)
Non era passato molto tempo dalla sua nascita, era quindi ancora giovane questo nuovo sole, che la terra cominciò già a trarre beneficio dalla sua presenza. In realtà, fino ad adesso e ancora per un po’, il testo prosegue tenendo celati i nomi dei protagonisti. Si narra di un giovane che decise di prendere in sposa una donna rimasta vedova dal tempo della morte di Cristo, derelitta e fuggita da tutti come e più della morte stessa:
ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;
e dinanzi a la sua spirital corte
et coram patre le si fece unito;
poscia di dì in dì l’amò più forte. (vv. 58-63)
Per lei si mise contro il volere del padre, si espose alla presenza del vescovo e davanti al suo stesso genitore si unì a lei. A questo punto, in questo inarrestabile crescendo emotivo, si solleva il sipario e San Tommaso ci rivela i nomi dei due amanti:
Ma perch’ io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso. (vv. 73-75)
Adesso il testo cambia completamente registro, e Dante accantona la metafora celeste del sole per adottare in tutto e per tutto quella coniugale, di Francesco e madonna Povertà. Nei commenti si parla sempre di matrimonio mistico, il che strettamente parlando non può che essere vero, ma Dante c’è di più, e nel descrivere l’amore tra i due, va anche oltre le carte stilnoviste di un tempo, pure così dense di passione, di sguardi corrisposti, di emozioni ineffabili:
La lor concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi;
tanto che ’l venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
corse e, correndo, li parve esser tardo. (vv. 76-81)
Nato dall’unione tra i due amanti, Bernardo da Quintavalle fu il primo figlio e va inteso proprio come tale; versi quasi commoventi, questi, che tramandano l’immagine di un uomo così tanto catturato dall’amore che vede tra Francesco e Povertà che non può resistere, come già Francesca da Rimini aveva preannunciato nel celebre “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”; e si mette a correre, cercando recuperare il tempo e la distanza perduti e nonostante ogni suo sforzo non gli pareva di fare abbastanza. Questi versi trasmettono un tale ardore, entusiasmo, meraviglia!
E più avanti Dante insiste, parlando espressamente di famiglia:
Indi sen va quel padre e quel maestro
con la sua donna e con quella famiglia
che già legava l’umile capestro. (vv. 85-87)
Ogni volta che leggo questo canto non posso fare a meno di ripensare al film Francesco di Liliana Cavani la quale, era il 1989, nel ruolo di Francesco scelse Mickey Rourke, all’epoca celebre sex symbol, e nella sceneggiatura non mancarono sequenze dalla spiccatissima flessione erotica, focalizzate sulla perfetta comunione tra Francesco e il Creato.
Il canto prosegue rispettando le principali tappe della vita del Santo: l’incontro con papa Innocenzo III, poi con Onorio III, la visita al Sultano d’Egitto, il rientro in Italia e infine le stigmate e la morte.
Da papa Innocenzo, Francesco ottenne l’autorizzazione a condurre una vita comunitaria coi suoi primissimi confratelli. Quanto domandava al papa non era da prendere sottogamba perché a quel tempo molti altri predicatori erano mossi da pie intenzioni di rinnovamento morale e spirituale ma invariabilmente sconfinavano nell’aperta e spesso violenta contestazione della Chiesa e quindi nell’eresia. Da Onorio invece ottenne la conferma della prima Regola francescana: il movimento, osservato speciale, era rimasto dunque nell’ortodossia e veniva istituzionalizzato.
Ma la strada intrapresa da Francesco non era ancora giunta al termine e la sua esperienza terrena mancava anzi del capitolo più significativo: le stigmate. La centralità dell’evento è ovvia in sé ma lo è ancora di più nella visione nella quale il poeta stesso ce lo presenta, ovvero come ultimo e definitivo sigillo, impresso nelle stesse carni del santo, come a voler sottolineare la transitorietà e fragilità materiale dei sigilli papali precedenti rispetto a questo. Non era certamente quella la prima volta in cui il poeta adombrava criticamente le decisioni molto terrene della Chiesa terrena rispetto alla volontà celeste: sto pensando alla insospettabile redenzione di Manfredi di Svevia, morto scomunicato eppure in viaggio verso la salvezza, già approdato sulle rive del Purgatorio.
Del resto proprio questo segna l’incolmabile e per molti aspetti incomprensibile solco che separa l’Inferno dai Regni superiori: il primo è del tutto umano. È il luogo della punizione per la colpa; certo, tutto si muove nella Giustizia di Dio, ma l’Inferno è la cantica nella quale si dibattono le passioni umane e forse proprio per questo ci risulta così congeniale la sua lettura e soprattutto la sua comprensione. Già nel Purgatorio Dante rimescola le carte: per gli stessi diavoli alcune scelte sono incomprensibili, per quanto necessariamente accettate (e mi riferisco all’episodio di Buonconte da Montefeltro); lì il nostro metro di giudizio diventa corto, la nostra vista altrettanto. E questa insufficienza si farà ancora più acuta nel Paradiso nel quale il Sommo Poeta darà il massimo di sé liberarsi da ogni gravezza umana.
Le stigmate di Francesco dimostrano proprio questo: la perfetta adesione al modello di vita proposto da Cristo nei Vangeli è possibile anche quaggiù. La Cavani evidenziò con particolare enfasi quei momenti, con il Santo affaticato, malato, incerto, non tanto della sua fede (se ben ricordo) ma preso dal dubbio di aver compiuto le scelte giuste per sé e per i confratelli. Ricordo bene, Francesco-Rourke rivolto al Signore che grida “Parlami, parlami!” E poi il miracolo, eccolo:
nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno. (vv. 106-108)
Insomma, un canto di rara potenza ma narrato con pacata sapienza e compostezza come si addice ad un canto del Paradiso, caratterizzato da un crescendo di eventi sempre più prodigiosi; ma soprattutto un canto legato dalla forza dell’amore, certamente connotato di afflato ascetico ma disegnato su una ricca trama di passione ancora umana, comprensibile, condivisibile.
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