La casa dei doganieri, da Le occasioni
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura.
e il calcolo dei dadi più non torna
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende …)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
“Tu non ricordi la casa dei doganieri”. Laconica quanto recisa e lapidaria affermazione d’apertura; è una dolorosa certezza attorno alla quale, verso dopo verso, si costruirà l’intero componimento e la comprensione della vicenda.
Interessante l’immagine evocata dallo “sciame dei tuoi pensieri”: la metafora di pensieri disordinati e apparentemente senza finalità ma che comunque, come lo sciame che nel suo complesso vola una direzione, corrispondono a una logica di fondo, anche se a prima vista ci sfugge, “e vi sostò irrequieto”, esattamente come si comporta uno sciame. Lo sciame è turbolento, guardingo, sembra costantemente fuori luogo per il suo continuo ondeggiare, disperdersi e riformarsi in modo incessantemente nuovo; ma questa irrequietudine non è adatta a chi voglia stabilire una relazione. C’è un’altra celebre sua poesia dalla quale emerge un’immagine simile: Ti libero la fronte dai ghiaccioli. Qui, la donna-angelo di Montale, Clizia\Irma Brandeis, scende dal cielo come un angelo, e dopo aver attraversato turbini e tempeste raggiunge il suo uomo. I due trascorrono momenti di reciproca assistenza, pace e consolazione, soli in una stanza, ma lei riposa in un sonno scosso da “soprassalti”, e intanto, da fuori, trascorrendo le ore un’ombra oscura insinua le sue lunghe dita dentro quel rifugio sicuro.
Seconda e terza strofa
La seconda e la terza sono strofe dedicate allo smarrimento: la banderuola che tracciava la rotta e la direzione dei ricordi e dei pensieri è impazzita e senza più alcun aiuto, il calcolo al tiro dei dadi non torna più anche laddove dovrebbe, ovvero non c’è più logica nel susseguirsi sempre più rapido degli eventi che accadono fra quelle mura attraversate di venti in ogni direzione. Proprio fra la seconda e la terza strofa subentra una nuova, simbolica immagine: il filo dei pensieri. Montale, scrive, ne tiene “ancora un capo” ma l’avverbio sembra sottolineare l’imminenza di un cambiamento. Da questo momento alla poesia viene impressa una decisa accelerazione e tutto sembra cadere giù da quella scogliera, sempre più veloce, senza più controllo: “la banderuola\ affumicata gira senza pietà” e pare sentire lo stridente lamento del suo attorcigliato ripetersi. Da questa pietà è escluso anche Montale, la cui consapevolezza, a poco a poco, porta alla luce l’errore commesso nell’essere tornato in quel luogo. La sostanziale anafora “ne tengo [ancora] un capo” sottolinea il caparbio attaccamento, la resistenza a una forza che trascina via in senso opposto ma è presto evidente che è tutto inutile. Tutto pare allontanarsi, se non addirittura fuggire da lui e scivolare via: la casa, l’orizzonte… Lontano da tutto la luce, rara, di una petroliera in transito. La direzione della nave a questo punto è ininfluente, non importa sapere quale sia, se arrivi o parta. Ciò che si desiderava era il varco, l’anello che non tiene, la possibilità di attraversare l’ostacolo, il miracolo. Ma questo varco non è stato trovato.
Lo stesso intermezzo, inaspettato e disarmonico, del frangente che ripullula incessantemente, pare sovrapporsi alla poesia e alla vita del poeta per riscuoterlo da una sorta di sogno all’indietro e riportarlo con uno strattone alla realtà. Non solo: il mare risponde con la sua voce di sempre; davanti ai tormenti del poeta e della sua storia non ha cambiato ritmo né si è scosso, nemmeno per un attimo. Sembra voler ricondurre l’uomo al suo posto nella scala dei valori dell’universo, un posto piccolo e insignificante.
L’immediato procedere dalla domanda “Il varco è qui?” ne sancisce il collegamento e l’alta balza che scoscende non fa che aumentare la distanza tra presente e passato, distanza che è fisica, è storica, è biografica, è mentale.
La conclusione è terribile: vorrei richiamare l’attenzione sul verso “la casa di questa mia sera”. L’aggettivo possessivo diventa esclusivo, come già lo era stato per Pascoli e ci aiuta a comprendere quell’incolmabile distanza e la irreversibile impossibilità di comunicare. Qualsia cosa abbia significato quella casa ormai è sfumato tra le dita.
Le ultime parole quindi sono l’ovvia conclusione e l’ultimo passo verso la dissoluzione più completa della realtà e il definitivo sciogliersi di ogni legame col passato. Il filo che Montale teneva non c’è più, “Ed io non so chi va e chi resta”, conclude il poeta. Chi, veramente, se n’è andato e chi è rimasto in quella casa sulla scogliera? E come la petroliera, ridotta a una luce indeterminata senza una direzione, su questo insolubile quesito si chiude la poesia.
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