Dante Alighieri amava osservare i comportamenti umani, tutta la Commedia ce lo testimonia; ma non era lo stesso interesse di Boccaccio, più attento alla strada e alla quotidianità spicciola (be’, spicciola fino a un certo punto: vi invito a leggere al riguardo Il complesso ‘caso’ di Lisabetta da Messina). Dante nei suoi scritti spiegava che la letteratura doveva proporre non tanto modelli di vita ma piuttosto strade per crescere ed elevarsi in una costante progressione positiva. In questa direzione fu pensata già La vita nova, vera e propria biografia ideale di un percorso di vita in divenire, le grandi canzoni filosofiche del Convivio e infine la Commedia.
Proprio nel grandioso poema, l’allegorico viaggio fra i tre regni dell’Oltretomba furono l’occasione perfetta e la più ghiotta per bacchettare le debolezze umane e ritornare con fatica e dolore sulla celebre “retta via”. Per citare qualche esempio in tal senso si potrebbe pescare quasi alla cieca dal pozzo della fantasia dantesca, ma fra gli oltre 14.200 versi del poema ho scelto tre terzine tratte dal Canto XIII del Paradiso, un canto dottrinario che normalmente non rientra nei percorsi scolastici danteschi. Eppure… È San Tommaso d’Aquino che parla, riflettendo e argomentando sulla fallace capacità di giudizio degli esseri umani e apostrofa i filosofi troppo svelti a saltare alle conclusioni.
Si tratta nove versi poeticamente sublimi e dal significato profondissimo. Leggiamoli:
Non sien le genti, ancor, troppo sicure
a giudicar, sì come quei che stima
le biade in campo pria che sien mature;
ch'i' ho veduto tutto 'verno prima
lo prun mostrarsi rigido e feroce,
poscia portar la rosa in su la cima;
e legno vidi già dritto e veloce
correr lo mar per tutto suo cammino,
perire al fine a l'intrar de la foce.
[Paradiso, XIII, vv. 130-138]
ovvero: Le persone non siano troppo precipitose a giudicare, così come fa colui che valuta le messi del campo prima che siano mature; perché io ho visto il rovo mostrarsi per tutto l’inverno secco e spinoso poi portare un rosa su di sé, così come ho visto una nave correre dritta e veloce per tutto il suo viaggio affondare infine all’ingresso del porto.
Seppure mediata e forse rarefatta dalla forma poetica qualitativamente eccelsa tipica del Paradiso in realtà emerge con forza tantissima umanità, esperienza di vita e dolore; sono versi che si trascinano dietro il peso di una biografia tormentata e un speranza flebile che ancora guarda al futuro.
La prima terzina, ispirata dalla pratica contadina, ha anche un chiaro ascendente evangelico nella parabola del Ricco Epulone, convinto di aver ormai riserve per ritirarsi a vita tranquilla, ancora non sa che la sua vita gli sarà richiesta quella stessa notte. Ma il riferimento agreste risiede forse anche nel drammatico scorcio cronologico di chi visse nel XIV secolo, funestato dal sistematico ripetersi di sconquassi climatici, epidemiologici e bellici. Infatti, in anni che potrebbero coincidere e non allontanarsi troppo da quelli del nostro canto, fra 1315 e 1317 sull’Europa si abbatterono due anni di piogge torrenziali e quasi ininterrotte, e poi tanto rigore invernale da far crollare quasi a zero la produzione di risorse primarie. A causa del poco sole e dei campi continuamente allagati le messi e i prodotti agricoli non arrivarono a maturazione o lo fecero in forma molto parziale, e pure gli animali non ebbero di che sfamarsi; la popolazione del continente fu così decimata dalla fame e dalle malattie, quest’ultime rese più falcidianti dalla debilitazione generale.
La seconda terzina è una vera perla di bellezza. Dante ci propone l’immagine di un cesto di rovi che per tutto l’inverno si mostra “feroce”, inospitale e minaccioso nella sua gabbia spinosa; eppure con la bella stagione si mostra inaspettatamente in una nuova veste, portando come in trionfo una rosa sulla cima. L’essere collocata fra due terzine negative la fa emergere ancora più spiccatamente, come una vera rosa che lotta per vincere il soffocante intrico di terribili rami spinosi.
L’ultima terzina è la più interessante. Il suo significato è ovvio e non dissimile dalle altre metafore, ovvero nessuno può sapere cosa riserva il futuro, giacché anche la navigazione più spedita può concludersi tragicamente a un passo dalla meta. Ma se ci scostiamo per un attimo dal significato contingente, possiamo indagare anche in altre direzioni. Dante nella sua poesia utilizza molto frequentemente l’immagine della navigazione a simboleggiare la vita che scorre, come molti altri del resto, Petrarca in primis, nella tragica Che debbo far? che mi consigli Amore? Ma al contrario di molti suoi colleghi, per i quali la navigazione è perigliosa e anche fatale, concludendosi con distruttivi naufragi, tranne in questo caso per Dante si tratta sempre di una visione positiva e ama particolarmente ricorrere all’immagine della nave che si allontana a vele spiegate, rivendicando con forza al sua volontà di prendere il largo. Anche nella tragica narrazione dell’ultimo viaggio di Ulisse (Inferno, XXVI), la rotta punta al largo senza flessioni, anche se questo porterà alla catastrofe.
Dante ha tale desiderio di staccarsi dal passato e dalla tradizione che nella corrispondenza poetica con Cino da Pistoia, dopo aver ricevuto l’ennesimo sonetto piangente pene d’amore e d’esilio, gli risponderà:
Io mi credea del tutto esser partito
da queste nostre rime, messer Cino,
ché si conviene omai altro camino
alla mia nave più lungi dal lito
[Io mi credea del tutto esser partito, CXXXa]
Assai interessante quest’ultimo e apparentemente innocuo verso. La navigazione nel Medioevo seguiva scrupolosamente ciò che veniva dettato dai Portolani, ovvero manuali a uso dei comandanti nati e tramandati con continui arricchimenti di esperienze tramandate. Nonostante la pratica consolidata, le rotte non si allontanavano mai troppo dalle coste e la navigazione era sostanzialmente a vista poiché servivano riferimenti paesaggistici necessari a orientarsi e determinare la posizione. Ma la nave di Dante si spinge lontano dalla costa, oltre l’orizzonte che si vede.
Il concetto del resto era già stato chiaramente enunciato nel celebre incipit del Purgatorio:
Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé ma sì crudele;
Non è quindi l’ignoto a spaventare, non è il pericolo o l’imponderabile; al contrario la sfida da affrontare è per Dante uno stimolo e un incentivo. Per questo motivo tutta la sua carriera poetica è caratterizzata da una continua quanto infaticabile ricerca e sperimentazione. Se affianchiamo questo dato artistico a quello biografico il discorso si fa ancora più interessante. L’esilio del poeta comincia il 17 gennaio del 1302. Da quella prima condanna per baratteria, sentenziata per sordidi giochi politici che si disputavano su di un piano ben più elevato e potente di quanto Dante, anche volendo, potesse raggiungere, e con una posta di portata internazionale, egli non rientrerà più nella sua Firenze, declinando con sdegno l’offerta di perdono, subordinata però ad un’ammenda e soprattutto al pubblico riconoscimento della propria colpevolezza. Lontano dalla patria, costretto a vivere dell’ospitalità altrui, si rifugiò nello studio e nel perfezionamento della propria arte, fino a comporre la Commedia, vera Sistina della letteratura universale. Appare dunque ammirevole la tenacia di quell’uomo che andò avanti contro ogni ingiustizia, ogni abuso e nell’incertezza del domani, rimanendo sempre saldo ai propri principi.
Tornando quindi al nostro canto XIII del Paradiso, presentandci il naufragio alla porta di casa sembra quasi che Dante abbia voluto metterci sull’avviso che il pericolo più insidioso si annida proprio quando ci sentiamo ormai salvi e alla meta, appagati dalla vittoria che sembra lì, a portata di mano. Ma potrebbe anche sottintendere, perché no, che la peggiori minacce si nascondono dove meno ce le aspettiamo, in casa, tra gli amici, nella propria città.
Come dargli torto?
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