Dopo aver rapidamente percorso la storia del rapporto fra uomo e stelle attraverso i monumenti del passato, vediamo adesso qualche suggestione letteraria. Ovviamente non sarebbe possibile, e non ne avrei le conoscenze, per seguire tutta la letteratura in cui si è parlato di stelle. Salterò quindi di secolo in secolo per provare a ricostruire la storia di un’idea e provare a fornire qualche emozione.
Stelle della letteratura
A partire dai miti della creazione (la cosmogonia), l’universo primordiale è stato spesso immaginato come un caos informe oppure un luogo freddo, vuoto e buio; la formazione delle stelle è dunque un passaggio determinante perché il creato acquisti un senso. Talvolta, come nel mito narrato nella Genesi, il firmamento è visto come strato di separazione fra la terra e il cielo; appare quindi quasi paradossale che l’uomo abbia dedicato in tutta la sua storia tanti sforzi per oltrepassare tale diaframma e accorciare la distanza tra lui e le stelle: forse abbiamo sempre sognato un luogo diverso in cui vivere, oppure proviamo un indistinto senso di appartenenza che si completa solo guardando lassù. Se ci pensiamo, l’astrologia, pur con tutte le sue opinabilissime stravaganze vaticinatrici, presuppone esattamente una qualche sorta di influenza astrale sul nostro essere. Onestamente, non riesco proprio a immaginare come una stella qualche anno luce da qua possa esercitare una benché minima interferenza con la mia vita, ma la Terra fa parte di un sistema complesso, fatto di corpi celesti anche relativamente vicini e per questo non me la sentirei di mettere la mano sul fuoco e negare ogni possibile influsso, ordito da precise leggi fisiche e naturali, s’intende.
Nel Medioevo il concetto era ancora più complicato: gli uomini di allora avevano ereditato e quanto fin dall’antichità si ipotizzava, ovvero che gli astri infondessero sulla virtù particolari dentro particolari pietre, ognuna secondo la propria “buona stella”. Il più celebre ed esplicito esempio lo si legge a scuola nella canzone di Guido Guinizzelli Al cor gentile rempaira sempre Amore, nei versi:
poi che n’ha tratto fòre
per sua forza lo sol ciò che li è vile,
stella li dà valore
Ovvero: dopo che il Sole, con la sua forza, ha eliminato dalla pietra ogni impurità, la stella le dona virtù. Questa teoria aveva una lunga tradizione. Certamente già gli antichi egizi riconoscevano virtù particolari alle pietre dure, con le quali confezionavano gioielli e amuleti. Poi, attraverso l’ellenismo la scienza delle pietre arrivò di qua dal Mediterraneo e fu conosciuta nel Medioevo tramandata dalla Naturalis historia di Plinio; da lì in poi ne fu perpetuata la tradizione nei lapidarii, ovvero codici nei quali si tramandavano lo studio delle pietre dure e delle loro proprietà terapeutiche e apotropaiche.
Tornando alle stelle, vale la pena ricordare che Dante Alighieri chiuse le tre cantiche della Commedia con un riferimento alle stelle: dall’Inferno al Purgatorio come ritorno alla luce; dal Purgatorio al Paradiso come nuova disposizione d’animo per l’ultimo grande passo e infine, alla chiusura del Paradiso come ultima ridefinizione dell’ordine cosmico. Dal momento in cui riemerge dagli abissi dell’Inferno, Dante non cessa di riferirsi alle stelle, spesso con complicatissime perifrasi, per collocarci nello spazio e nel tempo giusto attraverso l’osservazione delle costellazioni, come se la loro assenza fosse un’insopportabile menomazione.
A proposito di orientamento, mi viene in mente anche Francesco Petrarca che, in conclusione dell’elegiaco sonetto La vita fugge, et non s’arresta una hora, scrive:
veggio al mio navigar turbati i venti;
veggio fortuna in porto, et stanco omai
il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti.
Questo sonetto, il n. 272 del Canzoniere, scritto dopo la morte dell’amata Laura, utilizza la consueta metafora della perigliosa navigazione per raccontare le difficoltà della vita umana: la nave di Petrarca, già gravemente danneggiata e alla deriva, si prepara ad affrontare la tempesta finale proprio all’ingresso del porto. A me interessa l’ultimo verso “e i lumi bei che mirar soglio, spenti”. Ovviamente il primo riferimento simbolico sono gli occhi di Laura, ma trattandosi di una metafora marinaresca, le belle luci che altro potrebbero essere se non le stelle, indispensabili guide durante la navigazione?
A partire da Copernico, il cosmo apparve sotto una nuova e spiazzante luce e l’uomo si trovò improvvisamente catapultato ai margini dell’universo per riconoscersi una frazione infinitesima del tutto, tanto da precipitare in una condizione di frustrazione forse non troppo dissimile da quella dell’uomo sbigottito delle origini. Le religioni rivelate celebrano nella cosmogonia la creazione dell’uomo, com’è logico che sia, fiore all’occhiello (talvolta con qualche occasionale ripensamento) dell’opera della divinità; questo aveva instillato la millenaria e malsana convinzione che noi avessimo un ruolo privilegiato sul palcoscenico del Creato. Accettare la nuova realtà fu dura e su questo solco il Romanticismo acuì ancora di più la distanza fra l’uomo e le stelle, riempiendo di languente malinconia lo spazio fra noi ed esse, con echi che continuarono a rimbalzare ancora per buona parte del Novecento.
Sono molti gli artisti che hanno patito la lacerante distanza fra noi e gli astri. Nella celeberrima X agosto, Pascoli separa nettamente il mondo di lassù e il mondo di quaggiù: nella notte di San Lorenzo le “stelle cadenti”, come lacrime versate sui mali del mondo, sembrano quasi gettare un ponte fra i due estremi ma questo per il poeta significa rievocare il tragico anniversario della scomparsa del padre e riaprire vecchie ferite. Anche nella poesia La vertigine, espressamente dedicata all’osservazione della volta celeste, imbevendo la poesia di scienza, scrive:
Oh! se la notte, almeno lei, non fosse!
Qual freddo orrore pendere su quelle
lontane, fredde, bianche azzurre e rosse,
su quell’immenso baratro di stelle,
sopra quei gruppi, sopra quelli ammassi,
quel seminìo, quel polverìo di stelle!
[...]
Precipitare languido, sgomento,
nullo, senza più peso e senza senso:
sprofondar d’un millennio ogni momento!
In questa elegante poesia, Pascoli lascia trasparire tutto il suo sgomento di fronte all’immensità siderale, i vuoti cosmici che atterriscono.
Ungaretti infine ci descrive una sensazione solo apparentemente diversa, nella poesia La stella:
Stella, mia unica stella,
nella povertà della notte, sola,
per me, solo rifulgi,
nella mia solitudine rifulgi;
ma, per me, stella
che mai non finirai d'illuminare,
un tempo ti è concesso troppo breve,
mi elargisci una luce
che la disperazione in me
non fa che acuire.
ovvero, sebbene la stella non perda la sua luce né la sua funzione di guida e di riferimento nel vuoto cosmico, l’incommensurabile diversità di percezione tra la nostra finitezza umana “non fa che acuire” il senso di disperazione per la nostra fragilità nonché la nostra incapacità di razionalizzare il nostro rapporto con le stelle, a partire dalla distanza che ci separa. Il che, in fin dei conti, è la stessa, ripetuta delusione vissuta da Pascoli.
Dopo i fallimentari tentativi compiuti dall’uomo nei miti antichi di raggiungere gli astri con la propria abilità e ingegno (pensiamo a Fetonte, Icaro) alla fine dell’Ottocento nacque la fantascienza, prima in letteratura e poi, nel secolo successivo, nel cinema e infine nella realtà. I nostri mezzi spaziali hanno superato da tempo i confini del Sistema solare, liberandosi dalle ultime tenuissime interferenze gravitazionali del Sole. Siamo arrivati sulla Luna e forse approderemo su Marte, ma le stelle restano ancora appannaggio esclusivo della fantascienza: è vero, non possiamo ancora raggiungerle ma possiamo studiarle e ascoltarle e lo facciamo da decenni, anche nella speranza che attorno a loro ruotino mondi abitati.
Infatti, i viaggi della fantascienza ci hanno indotto a immaginare nuove forme di civiltà aliene, aspetto del tutto ignorato nella letteratura meno recente (a meno che non vadano letti come tali alcuni riferimenti a “esseri superiori” che fanno capolino in vari miti antichi, vigendo la convinzione che l’uomo fosse l’unico essere “superiore” creato), e questo ha spostato l’attenzione e l’oggetto del viaggio fantastico dal dove al chi.
A ben vedere, i grandi scrittori della fantascienza non hanno separato il chi dal dove, al contrario le storie narrate non possono essere avulse dal preciso contesto nel quale vengono a compimento. Ho già affrontato, anche se un po’ disordinatamente, questo argomento e quindi fra gli articoli di questo blog ne trovate già alcuni dedicati alle stelle.
Vi ricorderò ancora il commovente romanzo di James Gunn (1972), Gli ascoltatori, oppure il sublime (e un po’ ostico) La voce del padrone (1968), di Stanislav Lem. Ma soprattutto diversi lavori di Arthur Clarke. La sua nobile penna ha scritto pagine mozzafiato dedicate alle stelle. Dal racconto La sentinella (1948), ai romanzi 2001. Odissea nello Spazio (1968) e 2010. Odissea due (1982) ma soprattutto, veramente sopra ogni cosa, il racconto La stella, del 1955, che vi invito calorosamente a leggere. Gli ho dedicato un articolo, ma mi rendo conto di quanto poco efficace sia rispetto alla monumentalità del messaggio contenuto. Sembra che Clarke abbia sempre avuto molto presente l’idea che la distanza, e soprattutto la separazione come fu tracciata nella Genesi, fra il nostro mondo e le stelle non sia soltanto in termini di anni luce; piuttosto, prima o poi si arriva necessariamente ad un punto in cui lo stesso concetto di conoscenza si scontra con quello di comprensione della natura delle cose (un tema che sarà meditato e approfondito nel corso del lungo viaggio verso Giove dell’astronave Discovery in 2001. Odissea nello spazio); un grande “perché?”, un nodo che probabilmente non spetta a noi umani sciogliere.
Oppure, chissà? magari arriverà il giorno in cui avremo scoperto tutto e conosceremo tutto, il giorno in cui ogni angolo del cosmo sarà stato esplorato e tutto ci parrà diverso; intanto, parafrasando Lem nel romanzo La voce del padrone, sembra di vivere la condizione di chi vorrebbe ricostruire la Quinta sinfonia di Beethoven conoscendone solo le prime note. Nonostante questo non ci fermiamo: inciampiamo, cadiamo e ci rialziamo da sempre, è nella natura del nostro pensiero guardare avanti (magari in su) e gettare luce nelle pieghe buie del mondo attorno a noi. E le stelle proprio questo sono: luce. La fatale attrazione che esercitano, non solo in termini gravitazionali, ci accompagna da sempre e ci accompagneranno fino alla fine.
Leggi anche E Dio creò il firmamento (prima parte)
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