Chi sono?
Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
«follía».
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
«malinconía».
Un musico, allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
«nostalgía».
Son dunque... che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.
(da Poemi, 1909)
Onestamente, credo che fra le poesie più toccanti della letteratura italiana vi sia questa, di Aldo Palazzeschi, pubblicata nel 1909. Nella sua ricerca letteraria ha attraversato diverse correnti letterarie, dal Crepuscolarismo il Futurismo e al suo rifiuto; è ricordato spesso per la sua pungente ironia, il suo sperimentalismo, e spesso lo si trova qualificato come il poeta “dello sberleffo” e della “risata irriverente”, quasi come se tutto gli scivolasse sulle spalle, protetto da una corazza scanzonata. Eppure non è affatto così, anzi, è forse uno dei poeti che sente più gravoso il peso del progressivo distacco e disinteresse della società verso la poesia.
Già dalla metà del secolo XIX (era il 1861, per l’esattezza), Baudelaire, nella celebre poesia L’albatro, denunciava la condizione di estremo disagio dei poeti, scaraventati a terra e derisi per il loro apparentemente goffo modo di incedere tra la gente comune, tra la quale la grande sensibilità d’animo non era più un motivo di elevazione ma piuttosto un pesante e ingestibile fardello. La società del tempo andava progressivamente massificandosi, spalmandosi attorno a pochi e vacui ideali calati dall’alto e standardizzati: dalle ideologie politiche allo sport, dalla conduzione forzosa dei consumi alla meccanizzazione della vita stessa su ritmi standardizzati.
La letteratura riversa nelle nuove produzioni questo identico disagio e stress che vive in prima persona e questo di fronte a una società sempre più distratta. Dal lato opposto, i Futuristi rispondono in modo sguaiato, scomposto e perfino aggressivo, classificando i crucci dei poeti come sentimentalismi triti, retaggio di un passato di mollezza.
I poeti dichiarano allora apertamente la loro incapacità a fornire una risposta ai mali del proprio tempo e chiedono di essere lasciati in disparte mentre tutto intorno è un gran vociare chiassoso.
Nella poesia Natale (26 dicembre 1916), Ungaretti scriveva:
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
[...]
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un angolo
e dimenticata
Eugenio Montale, nove anni dopo, scriveva:
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, [...]
ma prima di loro, era il 1910, proprio Palazzeschi, in conclusione dei bizzarri e amaramente ironici di E lasciatemi divertire! non mancava di annotare:
Infine,
io ho pienamente ragione,
i tempi sono cambiati,
gli uomini non domandano più nulla
dai poeti:
e lasciatemi divertire!
Ma questo disorientamento era già scolpito nell’incipit di Desolazione del povero poeta sentimentale, di Sergio Corazzini:
Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: Poeta?
Questa dolorosa impotenza caratterizza anche la nostra Chi sono?, nella quale il poeta stenta perfino a ritrovare la sua naturale vocazione, e la vena artistica si inaridisce fino allo spasmodico gorgoglio descritto in La fontana malata. Con un tale nodo alla gola Palazzeschi cerca di trovare una via d’uscita al suo smarrimento. Ma l’esito è un progressivo ripiegarsi su se stesso, precipitando in una vera e propria follia, dalla quale emergono solamente, tra malinconia e nostalgia, una monotona e forse sterile ripetizione.
Eppure il poeta non si dà per vinto e gioca la sua ultima carta, ovvero se stesso, il suo cuore e la sua anima; e lo fa completamente disarmato, aperto a ogni attacco, con tanto di lente di ingrandimento su di sé, perché niente vada perduto.
Palazzeschi non ci dà notizia delle sue aspettative, cosa ne sarà di lui. Lui si dà in pasto agli altri, esattamente con in Una casina di cristallo nella quale lui si immagina a vivere in una casa di città completamente trasparente, continuamente sotto gli occhi di tutti:
L'antico solitario nascosto
non nasconderà più niente
alla gente.
Palazzeschi sceglie però un mestiere pericoloso, quello del saltimbanco. Il sostantivo è chiaro nel suo significato letterale, ovvero l’acrobata, ma molto equivoco in termini simbolici, anche per la coloritura negativa di artista da quattro soldi o addirittura di chi, rocambolescamente, fa di tutto per guadagnarsi una posizione di evidenza. A questo punta Palazzeschi? Ne dubito, così come dubito delle interpretazioni troppo disinvolte di questo componimento che identificano nei versi un sentimento beffardo quasi capace di volgere in riso anche le più cupe immaginazioni. Io vi vedo, piuttosto, la tragica frustrazione di chi si sente costantemente fuori posto e come un saltimbanco deve fare i salti mortali per non cadere, come l’Ungaretti che salterà da un sasso all’altro fra le acqua dell’Isonzo nella poesia I fiumi, e che, per l’appunto, si troverà a riflettere su se stesso nella solitudine e nell’abbandono di quella dolina illuminata dalla luna,
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
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