L’argomento scelto per questo articolo sarebbe vastissimo, tanto da riempire saggi interi; ne ho circoscritto quindi solo alcuni aspetti (in modo del tutto arbitrario) a titolo di esempio, per guidare questa chiacchierata.
Iniziamo. L’epoca in cui Verga narrò le sue storie fu di grandi cambiamenti e tutto pareva destinato a imminenti rovesciamenti epocali: l’Unità d’Italia era stata da poco conseguita e portava con sé cambiamenti politici, sociali e culturali che per gran parte dei nuovi cittadini del Regno non erano nemmeno comprensibili e, anzi, spaventavano e arrecavano perfino grandi disagi; inoltre lo scenario europeo al quale l’Italia guardava si muoveva sotto l’improvvisa accelerazione che il progresso tecnologico della Seconda rivoluzione industriale stavano imprimendo alla società; copiose e nuove ricchezze stavano fluendo, molte delle quali prendevano la forma di nuovi beni di consumo apparentemente alla portata di tutti, o quasi. Così, d’un tratto, si scopriva che poteva esistere qualcosa di diverso appena al di là del paesello in cui si era sempre vissuto. Il tessuto sociale era divenuto quindi una coperta molto tesa, trascinata da un lato dall’onda inarrestabile del progresso e dall’altro dal freno delle tradizioni più radicate, fra le quali gli insegnamenti della Chiesa Cattolica romana erano quelli capaci di permeare le pieghe più profonde e intime della persona, specialmente in ambito rurale, dove usanze e vecchi retaggi si tramandavano con rigorosa fedeltà. Non solo: dopo l’evidente e quasi profanatrice laicità del nuovo Regno d’Italia, la Chiesa si era arroccata su ferme posizioni antagoniste, a partire dal famoso Non expedit di papa Pio IX, disposizione del 1868 con la quale si raccomandava ai buoni cattolici da astenersi da qualsiasi azione politica nel Regno.
Proviamo allora a seguire qualche spunto.
La fede e la quotidianità
L’adozione sincera, totale e rinnovata da parte di Verga dei metodi della narrativa Naturalista imponeva al narratore assoluta trasparenza, lucidità, onestà e attenzione minuziosa alla verità dei fatti narrati e degli ecosistemi socio-culturali dove i personaggi vivevano le loro peripezie; e per queste ragioni non poté prescindere dal tenere in seria considerazione il tema della fede e delle manifestazioni di religiosità.
In generale, sembra che Verga abbia sperimentato molte vie per sondare quanto solide fossero le fondamenta culturali, religiose e ideali dei suoi personaggi; li ha messi alla prova, li ha scossi come canne al vento, parafrasando un’altra grandissima scrittrice verista per verificare, infine, quando e come sarebbero caduti, quasi dando per scontato che sarebbe successo. Vanificare le certezze che derivano dalla fede è forse quello più destabilizzante.
Ho affrontato questa stessa discussione con i miei studenti e naturalmente il loro contributo in termini di spunti di riflessione e approfondimento è stato variegato e decisamente stimolante. In particolare mi ha colpito l’osservazione di un alunno, secondo il quale Verga non chiede mai ai suoi personaggi di affrontare prove impossibili o insuperabili; ciò che manda in rovina il loro mondo è la costante ripetizione quotidiana di piccole o grandi disavventure oppure il continuo lavorio delle tentazioni. Certamente esistono anche eventi catastrofici ai quali nessuno avrebbe potuto opporre alcun tipo di resistenza, ma infine l’assedio quotidiano e ripetuto può diventare l’acqua cheta che butta giù ogni ponte.
Nei suoi scritti tratta forme di religiosità molto spesso elementari: gesti e formule ripetuti, devozioni viscerali al culto della Vergine e dei santi, in altre parole, un insieme di semplici strumenti di conforto spirituale alla portata di gente altrettanto semplice. La stessa presenza del Male, iconizzata e rapidamente riassunta (e tutto sommato archiviata) nella figura del Diavolo che ci mette lo zampino e viene a sgambettare la vita di uomini e donne per indurli alla dannazione, ha un sapore spesso folcloristico.
La quotidianità tuttavia segue ancora il ritmo della Chiesa e attorno alla campana che batte l’ora delle preghiere anche la giornata prende forma. Qualsiasi deviazione o semplice oscillazione che faccia allontanare da questi ritmi stabili e sicuri dà vita a situazioni quantomeno paradossali come la perplessità dei cittadini di Bronte nella novella Libertà che, dopo i furiosi massacri della sera precedente e la caccia spietata ai galantuomini, al mattino si ritrovano come ogni domenica sul sagrato, senza che le campane avessero annunziato alcunché, giacché anche il parroco era stato assassinato e il sagrestano “s’era rintanato”. Eppure, con le mani ancora grondanti di sangue, i facinorosi si guardavano intorno come istupiditi perché: “Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani!”.
Le fede assume quindi una pratica devozionale dal sapore vagamente scaramantico che infine stempera l’importanza stessa della materia e ne riduce la reale importanza e soprattutto il coinvolgimento della totalità persona.
Promesse, voti e Sacramenti
Parto dall’assunto che nella narrativa verghiana le passioni umane sembrano essere ben più potenti del timore dei castighi divini, nonostante che davanti agli altari dei santi a al loro nome si leghino voti, giuramenti e i migliori propositi. Questa discriminante era già chiarissima nel primo Verga, in particolare nel romanzo epistolare Storia di una capinera. Maria è una giovane educanda costretta al convento perché il padre, l’unico genitore sopravvissuto, non può badare economicamente anche a lei. L’epidemia di colera costringe le monache a lasciare la vita comunitaria per tornare alle rispettive famiglie e Maria torna a Monte Ilice dove riscopre la bellezza degli spazi liberi e aperti e nelle sue frequentazioni conosce il fratello di un’amica, Antonio, col quale intreccerà una tenera storia d’amore. La relazione con Toni sarà stroncata dal rientro in convento ma non estinguerà il sentimento: nonostante la professione dei voti definitivi, l’amore per il ragazzo – che nel frattempo si è sposato – rimarrà vivo, continuamente aizzato dalla circostanza per cui lei dalla clausura può vederne la casa. Il pensiero fisso diventerà una malattia che condurrà Maria alla pazzia e alla morte.
L’autore sembra essere particolarmente sensibile alle dinamiche familiari e ai sentimenti che ruotano attorno ad essa. Affronta molti punti di vista ma ai nostri fini, proprio partendo dallo spunto di Maria e Toni, interessa proprio il legame e il sacramento celebrato nel matrimonio, nei confronti del quale il tradimento e l’infedeltà ne sono le dinamiche più frequenti. L’intreccio presentato nella novella La Lupa è probabilmente il più clamoroso e sconvolgente ma non è l’unico.
La protagonista, la gnà Pina (la Lupa) non riesce a trovare riposo dai suoi appetiti sessuali e per soddisfarli non si sarebbe astenuta nemmeno davanti all’altare: “le donne si facevano la croce quando la vedevano passare […]; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti l’altare di Santa Agrippina. Per fortuna la Lupa non veniva mai in chiesa”. Questa figura, eccezionalmente scolpita dall’abilità narrativa di Verga, domina una novella scandalosa con il suo comportamento immorale che l’autore non manca di sfaccettare anche negli aspetti erotici più spinti, seppur velati dietro sottili e certamente eleganti allusioni circostanziali. Uno spirito indomabile spinge avanti la donna, dritta, col seno superbo e gli occhi da divoratrice di uomini contro un intero paese, o almeno contro la metà femminile, che l’ha emarginata. Per saziare la sua bramosia da lupa dantesca, disintegra i più saldi e archetipici sentimenti e rapporti familiari giacché tutta la storia è fatalmente segnata dall’incontro con Nanni: per portarselo in casa non esiterà a imporlo come marito alla figlia, per averlo non si fermerà davanti ai carabinieri, come non si fermerà davanti agli scongiuri dell’uomo e al ricorso di lui ai sacramenti nel vano tentativo di salvarsi l’anima. Alla fine niente potrà opporsi alla forza della passione e nella perdizione completa del finale la Lupa affronterà la lucente scure di Nanni esasperato e vinto “con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri.”
In buona sostanza tornano in lotta gli eterni rivali, ovvero gli istinti e le pulsioni umane contro i limiti imposti dal senso del dovere, morale e civile; come se Verga volesse mettere l’essere umano alla prova dei fatti e osservare fino a che punto riesce a spingersi prima di crollare; dal che se deduce che il crollo è comunque inevitabile. I concetti stessi di Bene e Male sono relativizzati, quasi digeriti e riproposti nella nuova luce della società del tempo. Questo naturalmente, a rigore di logica, è vero per qualsiasi epoca: Verga ha osservato il suo tempo, raccontandoci prima di gente semplice e dai sentimenti più schietti e più facili da individuare, salendo poi via via più su, in una società dagli intrecci sempre più complessi e che ha ricalibrato completamente giudizi e moralità.
Verga non è stato, in ambito Verista, l’unico autore a dar vita a contesti nei quali si rende così manifesta la fallibilità dei sacramenti, se non anche una sfacciata manipolazione e arrogante irriverenza nei loro confronti: Luigi Capuana, nel romanzo Il marchese di Roccaverdina, narra l’incontro fra il protagonista e don Silvio, il povero e ascetico curato del paese, un sant’uomo non diversamente dal verghiano “Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù” che aveva perso l’anima nel tentativo di riportare sulla retta via la Lupa. Al cospetto di don Silvio il marchese, tormentato dal rimorso dell’omicidio commesso, confessa il suo crimine per il quale sconta la pena un innocente; ma davanti alla ferma posizione del confessore che non può concedergli l’assoluzione senza che egli si assuma le proprie responsabilità non solo davanti a Dio ma anche davanti agli uomini, il marchese rifiuta sdegnosamente e preferisce rimanere anch’egli nella condizione di peccato mortale.
La morte e l’aldilà
Su questo argomento Verga ha una posizione assai mutevole. In più circostanze la morte segna la fine di tutto e la promessa dei premi eterni è completamente negata. Anzi, tradendo uno dei principi fondamentali della Chiesa, ovvero che la felicità dell’uomo non è in questo mondo ma nel paradiso, in molte occasioni la morte è invocata e desiderata per porre fine alle sofferenze. Il povero Rosso Malpelo è un tragico profeta di questa condizione: lui non si attende niente oltre quella soglia, e la morte è semmai un balsamo lenitivo perché giunti dall’altra parte, nel nulla più assoluto, le sofferenze di quaggiù non potranno più raggiungerlo.
Nella stessa novella, in una terribile conversazione fra i due ragazzini, Ranocchio e Rosso, si evince che “Ranocchio invece provava una tale compiacenza spiegargli quello che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori”, e lo reclamava per vero, perché glielo aveva detto sua mamma. Al che Rosso recideva di netto ogni aspettativa e rispondendo con un sorrisetto “gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. – Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella-“. Non solo, il povero Rosso, profondamente colpito, ricorda all’amico che sebbene suo padre fosse stato buono, era umiliato da tutti e infine era morto nella cava.
Nella sua più estrema formulazione, quindi, non c’è alcun tipo di redenzione né un paradiso; solo una sorta di rivincita, un ghigno spietato come quello del Grigio, il derelitto asino morto di stenti e percosse e poi spolpato dai cani randagi ma che adesso, buttato là sulla sciara, non sente più nulla e si fa beffa di tutto e tutti. Rosso ne ha fatto una filosofia di vita, e davanti all’amico Ranocchio agonizzante esclamerà: “Se devi soffrire in tal modo, è meglio che tu crepi!” La vita non offre altre vie d’uscita.
La concezione canonica e cristiana dell’aldilà è messa in discussione in modo diverso nella novella Storie del castello di Trezza, un unicum nella narrativa di Verga, dove si dà vita a un duplice intreccio nel quale le vicende di amore e sangue tramandate tra le rovine a picco sul mare di Aci Castello, riecheggiano imperiosamente attraverso i secoli. In breve: un’allegra brigata di amici si dà appuntamento per un pranzo all’aperto fra i ruderi del castello; protagonisti sono il signor Luciano, il narratore interno che rievoca i fatti del passato, la signora Matilde, sua appassionata e affascinante ascoltatrice e il distratto marito di lei, il signor Giordano, più attento ai piaceri della tavola che ai bisogni della moglie. Luciano racconta la storia del barone don Garzia d’Arvelo, e delle sue due mogli che proprio lì, fra quelle mura sbeccate, ebbero teatro: Isabella e Violante. Della seconda sappiamo che era forte e altera, almeno quanto lui era rozzo e selvatico, l’opposto più lontano quindi della prima moglie, nobile, delicata e… suicida. Da quel tragico e inspiegato evento, spettrali apparizioni raggelarono uno dopo l’altro anche i più coriacei bravacci del barone, e lui stesso ne venne profondamente turbato. Noi lettori fino a questo punto non sappiamo molto di più della storia più antica. Solo dopo altre peripezie, grazie all’insistenza e alle indagini della seconda moglie, donna Violante, in seguito fuggitiva protagonista dopo la morte violenta del marito, riesce a estorcere una sorta di confessione dalla serva, attraverso la quale ci vengono resi noti i retroscena della drammatica morte di Isabella. Lei, oltraggiata e umiliata dalle continue scappatelle del barone nel letto della mugnaia del feudo, decide di ripagarlo con la stessa moneta, tradendolo con Corrado, un giovane paggio al suo servizio. La tempesta dei sentimenti che travolge i due amanti conduce a una tragica fine il giovane e lei al disperato e clamoroso suicidio. La profusione di messe e suffragi per l’anima della defunta si dimostrano inefficaci e il suo spettro non troverà pace.
Senza svelare niente di più, soprattutto dell’incredibile e scioccante finale, un insolito Verga sperimenta un racconto a metà fra gotico e romantico, una ghost story quindi, o perlomeno una storia che concede molto ad un soprannaturale e un aldilà certamente non ortodosso; ma soprattutto, ancora una volta, lo strumento della fede e dell’intercessione dei santi si dimostrano del tutto insufficienti a sanare il rapporto tra vivi e morti. Anzi, sebbene più volte invocate, le figure del Paradiso rimangono del tutto marginali.
Questo racconto del resto non è l’unico punto di intersezione fra la rigorosa narrativa verista e quella gotica e irrazionale: sto pensando ancora al celebre Marchese di Roccaverdina, nel quale non mancano penetranti incursioni nel mondo dello spiritismo e questo era solo l’ultimo (e insospettabile) di una serie di scritti dedicati dallo scrittore al fantastico, tanto potenti e insistiti da aver attirato sulla sua persona note di biasimo e riprovazione, perfino da Verga stesso.
Verga evangelico
Finora abbiamo quindi visto svariate circostanza nella quale Verga sembra deliberatamente concentrarsi nel sistematico smantellamento del castello di fede e superstiziose credenze per lasciare campo aperto a una grande sfiducia nei confronti di ogni possibile redenzione del genere umano.
Eppure mi riesce impossibile separare la narrativa verghiana da echi vagamente evangeliche che emergono dai suoi scritti. Nella novella La roba, il protagonista Mazzarò accumula ricchezze su ricchezze, mettendo a frutto i risparmi accumulati col duro lavoro; eppure, quand’arriva a possedere tutto la sua vita si chiude in un attimo, non diversamente dalla parabola del “Ricco stolto”, narrata nel Vangelo di Luca (Lc 12,16–21) che fa costruire nuovi granai nei quali stipare i suo sterminato raccolto che gli garantirà sicurezza e benessere per sempre; e quella stessa notte l’angelo del Signore passerà a chiedergli la vita. La delirante esplosione di rabbia e disperazione di Mazzarò ne rende la morte quantomeno grottesca, indigesta, vuota e triste e senza alcuna possibilità di consolazione; ma il Vangelo è chiaro: non si può servire a Dio e a Mammona!
Lo stesso smodato attaccamento alla “roba” non può che richiamare alla mente il tradimento del più importante insegnamento cristiano, ovvero di amare più le cose che il prossimo. E in questo non si può che tornare con la memoria alla novella di Rosso Malpelo la quale offre numerose suggestioni d’ispirazione evangelica. La prima possiamo riconoscerla in un episodio successivo alla morte di mastro Misciu, il padre di Rosso (configurabile, del resto, come la morte e il sacrificio del giusto): Verga ci narra di un disperato Rosso e come, incontrando il padrone della cava, gridasse: “E’ stato lui, per trentacinque tarì”, oppure, dietro a un altro “E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito quella sera!”. Be’, è veramente difficile non riconoscere in queste parole un’allusione al Cristo tradito e rinnegato nell’Orto degli Ulivi così come fuori del Pretorio.
Bene e male
Nei confronti del male quale conforto migliore dell’intercessione divina; eppure, l’abbiamo visto, talvolta non è sufficiente nemmeno quella, motivo per cui figli e figlie di Dio sono già stati condannati dall’opinione pubblica e irrimediabilmente perduti: davanti alla Lupa, affamata di uomini e lussuria, ci si fa il segno della croce e ci si tiene alla larga dal povero Rosso Malpelo che secondo i compagni cavatori ha sempre un diavolaccio dalla sua.
La sentenza è senza appello e la condanna trascina via anime e corpi. Eppure c’è sempre un elemento sfuggente, lo straniamento come lo qualificava Verga, ovvero la percezione che qualcosa non funzioni per il verso giusto e che percepiamo con turbamento. Ma non si va oltre: tanto il Marchese assassino di Capuana quanto i cittadini di Bronte ci fanno capire come non ci sia giustizia né lassù, né quaggiù. Del primo aspetto ne abbiamo già parlato ma anche nei confronti della giustizia umana si percepiscono le stesse incertezze. Il Marchese è al sicuro, al di sopra di ogni sospetto, i cittadini incriminati dei massacri di Bronte andranno in prigione o al patibolo senza nemmeno comprendere il perché: avevano cercato una libertà, o forse a questo punto sarebbe più opportuno dire liberazione che, ormai è chiaro, non arriverà mai.
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