Solaris, di Stanislaw Lem

Sono stato a lungo indeciso se pubblicare un articolo sul romanzo Solaris, scritto da Stanislaw Lem nel 1961. Intanto perché qua e là mi è già capitato di parlarne, anche diffusamente; ma soprattutto perché, onestamente, cosa potrei aggiungere che non sia già stato scritto e spiegato?

Però… Solaris è per me uno dei pochi romanzi dai quali non riesco in alcun modo a separarmi e che almeno una volta l’anno devo rileggere (almeno in parte). Pare impossibile a me per primo, eppure ogni rilettura è più appassionante, profonda e rivelatrice della precedente; e pensare che la prima volta, pur cogliendone l’assoluta genialità, ne trovai alcune sequenze decisamente stancanti, tali da costringermi a saltare delle pagine, peraltro senza danno alla trama. Be’, non avevo ancora compreso che la trama, sebbene decisamente originale, era forse la meno importante delle peculiarità del romanzo.

Partiamo ad ogni modo da essa: Solaris è un esopianeta in orbita in un sistema binario composto da un’abbacinante stella azzurra e una gigante rossa. Lem sceglie questa composizione poiché dovrebbe essere estremamente instabile e quindi nessun pianeta potrebbe rimanere in orbita in equilibrio tra i due astri. Eppure Solaris ci riesce e nessuno ha ancora capito come. L’aspetto stesso del pianeta è alquanto bizzarro poiché è interamente coperto da un oceano; esistono piccole terre emerse ma sono completamente vuote e insignificanti. 

L’uomo l’aveva scoperto decenni prima dell’inizio della nostra storia, concentrandovi energie e risorse senza precedenti, si erano succedute missioni automatiche in grado di misurare, rilevare, fotografare, analizzare ogni aspetto fisico e biologico del pianeta ma i risultati furono sconcertanti: il pianeta era sostanzialmente un luogo deserto, sopra e sotto l’oceano (che non era costituito di acqua ma di un altro materiale più viscoso e ignoto definito protoplasma); eppure, a quel punto fu evidente, il pianeta era in grado di correggere da solo la propria orbita per evitare di cadere dentro una delle due stelle. E si questo argomento la sterminata letteratura solariana aveva dovuto alzare bandiera bianca. Infine fu costruita una stazione orbitante, attrezzata con le migliori tecnologie, perché gli uomini potessero abitarvi e condurre dal posto nuovi e più mirati esperimenti nel tentativo di violare i segreti di Solaris.

Ciò che da subito aveva colpito l’interesse, erano le attività creative dell’oceano: per ragioni sconosciute, dalla superficie in movimento si consolidavano delle costruzioni dall’aspetto inspiegabile; esse si innalzavano al di sopra delle “acque”, sempre rimanendovi connesse, e infine fiorivano in forme casuali, apparentemente prive di ogni significato; la loro sostanza era bucherellata come spugne grandi quanto montagne, tanto da poter essere esplorate al loro interno. Fra le varie tipologie di creazioni catalogate, alcune poi avevano un aspetto se non regolare almeno simmetrico, come getti di fontane colossali solidificate; tutte, invariabilmente, nel giro di alcune ore iniziavano a degradarsi e crollavano, scomparendo all’interno dell’oceano. La grande sorpresa ci fu con l’arrivo dell’uomo poiché l’oceano iniziò a replicare la forma dei mezzi di trasporto delle spedizioni e si cominciò a ipotizzare che possedesse una forma di coscienza e intelligenza. Una missione in particolare attirò l’attenzione degli studiosi anche se non quanta ne avrebbe meritato: un pilota, durante un sorvolo, ebbe un guasto al sistema di respirazione del suo velivolo e rimase intossicato dall’atmosfera altamente velenosa del pianeta. Durante il disperato tentativo di rientro alla base, il pilota vide l’oceano che ricreava un giardino terrestre, un giardino che avrebbe potuto essere quello di casa sua, con tavoli, sedie e staccionate. L’episodio fu catalogato come un’allucinazione prodotta dai veleni inalati, ma la visione del pilota era destinata a suscitare l’interesse del protagonista del romanzo, Chris Kelvin, inviato alla stazione orbitante per valutare l’equilibrio psichiatrico dei membri dell’equipaggio.

Mi dispiace, ma da qui in avanti non posso fare a meno di rivelare punti chiave della trama.

Tutti, nella stazione soffrono di allucinazioni e uno dei membri dell’equipaggio è morto, episodio taciuto al controllo missione, sulla Terra. Ma scrivere che soffrono di allucinazioni non rende l’idea: nella stazione si manifestano “presenze” tangibili, in altre parole persone vere, in carne e ossa. I corsivi hanno un senso che potrà facilmente essere compreso andando avanti con la lettura.

Lo stesso Chris, dopo poche ore, si troverà in compagnia della sua apparizione: Harey, la moglie defunta suicida anni prima. Il romanzo non assume per questo tinte dark, men che meno horror e nemmeno spettrali, si ripiega casomai su se stesso in un perpetuo ritorno sui propri passi, passi di angoscia, solitudine, sbandamento, incomunicabilità, che provengono da un passato ancora vivo.
Al solito, cercando di dribblare gli snodi della trama, dopo lo sconcerto iniziale Chris accoglie Harey, la nuova Harey come una seconda opportunità ma ben presto si rende conto che è un lotta quasi impossibile: i legami col passato, con la tragedia che c’è stata e soprattutto per le modalità per cui si arrivò a quel punto sono un ostacolo invalicabile. Il vestito, modellato assieme al corpo, l’assenza dei ricordi e della personalità di lei sono continuamente il drammatico rovescio della medaglia. Soprattutto perché quella non è Harey, così come non lo sono le altre presenze, ma è piuttosto la proiezione di Harey attraverso il ricordo, il pensiero, l’idea che ne aveva Chris. A questo punto l’angoscia di lei, sebbene sopita sotto un amore cieco e devoto verso il marito, emerge doppiamente tragica: la terribile verità viene sbattuta in faccia a entrambi, come in un gioco a carte scoperte: Harey la fragile, la psicotica e infine Harey la suicida; lei, di cui si può avere solo una patetica compassione. È terribile.

Solaris, o il suo oceano pensante, durante il sonno scruta nei ricordi degli astronauti e il giorno dà forma tangibile ai loro pensieri, in tutto.

Il finale è degno di tanto romanzo, ma, tranquilli, lo trattengo al di qua della tastiera. 

Premesso che è uno dei (forse il) capolavori assoluti della fantascienza del Novecento, per molti aspetti Solaris si pone come logica evoluzione di molte tematiche già presenti nella storia della letteratura del XIX e ancora di più del XX secolo, prima fra tutte il tema del doppio e della maschera. Chris e Harey si mostrano l’uno come specchio dell’altro, l’uno senza l’altro sono incompleti, o addirittura impossibili. E nessuno riesce a sottrarsi al ruolo in cui si trova imprigionato: lei è tanto dipendente dal marito che non può resistere lontano dalla sua presenza, letteralmente, a rischio di scatenare forze furiose che nemmeno lei può controllare. Lui deve per forza riportare in vita un altro Chris, dal quale invece a stento era riuscito a prendere le distanze (e qui devo per forza mantenere una certa reticenza), ma tanto per avere un’idea del rapporto tragico fra i due, la nuova Harey è ricreata con un piccolo circoletto rosso sul braccio: il foro d’ingresso dell’ago col quale si iniettò il cocktail fatale.

Perché il pianeta fa questo? Il romanzo non ci dà risposte, e spesso la letteratura di Lem non ce ne dà. I suoi protagonisti non sono eroi a tutti i costi, anzi, in molte occasioni i suoi scritti narrano il fallimento, dimostrano inequivocabilmente la nostra limitata visione delle cose, la nostra ingarbugliata psiche, portando alla luce i lacci nei quali inconsapevolmente ci inviluppiamo. Tornando su Solaris, il grande motivo di frustrazione è il sentirsi vicini comprendere i misteri del pianeta e poi accettare nostro malgrado la verità, ovvero che in realtà abbiamo mosso ben pochi passi dal momento del primo incontro.

Tutto il romanzo ruota attorno alla necessità di comunicare e condividere pensieri, emozioni e sentimenti, eppure nessuno ci riesce e quando lo fa non viene recepito da alcuno. Il pianeta stesso, con il suo protoplasma, le sue emissioni creative e il suo eterno borbottare su frequenze particolari non è altro che un monologo del quale cogliamo solo barlumi inconcludenti.

Ma questo è solo l’inizio: il romanzo ci mette in croce su temi esistenziali quali la vita e la morte, il loro intrecciarsi fino a confondersi. A proposito di questo e del ragionare del pianeta quale organismo intelligente, per quanto incomprensibile, mi sono fermato spesso a riflettere cosa avrebbe potuto scrivere oggi Lem, che era un medico, sulla scorta dei nuovi sistemi diagnostici per il rilevamento e misurazione qualitativa dell’attività cerebrale. Eppure, per quanto i confini con i quali Lem circonda l’uomo sembrino terribilmente sottili e trasparenti alla fine risultano inesorabilmente vincolanti, scatenando così senso di colpa, frustrazione, rabbia oppure demotivato abbandono dei suoi protagonisti. Dalla tecnologia quindi, l’uomo non deve aspettarsi benefici, al contrario: la tecnologia e in senso lato il sapere marcano ancora più profondamente il solco che separa l’uomo dalla realtà e delle cose o, in altre parole, dalla verità. 

Ed eccoci così all’ultimo punto: la verità. Ogni volta che transito da queste parti la mente mi va sempre alla domanda di Ponzio Pilato: “Che cos’è la verità?”. Al di là delle colossali implicazioni teologiche in primis ma soprattutto filosofiche di questa domanda, spesso si mistifica il significato di quell’episodio, puntando sulla mancata risposta di Gesù. In realtà, a quanto si legge nel Vangelo di Giovanni, Pilato non attese la risposta e uscì dalla stanza. C’è quindi un rifiuto della verità, e lo stesso vale nei romanzi di Lem ma con una connotazione del tutto particolare: la verità non viene manipolata, né frantumata, né relativizzata come accadeva nelle speculazioni degli inizi del Novecento; semplicemente, nonostante ogni puerile illusione, rimane sempre oltre le nostre possibilità. Ma pur di non ammettere la sconfitta, e quasi senza accorgercene ci adagiamo su verità tristemente parziali, alle quali per rassicurare noi stessi addossiamo valori assoluti. Come tanti nuovi Ponzio Pilato, preferiamo distogliere la verità e rivolgerci alla folla.

Verso la fine del romanzo, dopo la risolutiva operazione messa in atto nella stazione orbitante di Solaris, c’è un ultimo inquietante dialogo fra Kelvin e Snaut, uno degli astronauti a bordo; il secondo, riferendosi all’oceano dice: “Noi esistiamo, per lui, come esistiamo fra noi. La superficie della faccia, il corpo che vediamo ci danno la possibilità di riconoscerci. Per lui, siamo come un vetro trasparente. […] Così lui ha preso ciò che c’era di più chiaro in noi, ciò che era più chiuso, più impresso, capisci? Non aveva assolutamente bisogno di sapere che significato avesse per noi.” La questione non è dunque quale sia la verità ma il suolo che essa possa ricoprire; la relativizzazione c’è ma non è qualitativa, ma brutalmente quantitativa, cosa coi a noi umani, orgogliosi o troppo fiduciosi nella nostra intelligenza, brucia ancora di più. Mi torna in mente Pirandello, ne Il fu Mattia Pascal, quando riduce l’uomo a un piccolo essere arrabbiato nel suo girare su un sassolino: tutta colpa di Copernico! Lui, che ha relegato al margine l’uomo, l’uomo che prima era al centro indiscusso della storia e della creazione. 

E poi, rivolgendosi a Chris:

“Tu sei buono. Anche lui. Tutti sono buoni. Allora perché? Spiegamelo. Perché lo hai fatto? Cosa le hai detto?”
“La verità.”
“La verità, la verità. Quale?”
“Lo sai.”

Nelle ultime righe, la tragedia dell’uomo è completa, la sua prigionia nel labirinto della sua scienza e intelligenza sono completi. 

“Ciascuno di noi sa che ogni essere materiale è sottoposto a precise leggi fisiologiche e fisiche, e che nemmeno la forza di tutti i nostri sentimenti può lottare contro queste leggi; possiamo solo odiarle. La secolare fede degli amanti e dei poeti nella potenza dell’amore più duraturo della morte […] è una bugia. Una bugia inutile, e nemmeno divertente.”

Eppure, nonostante questo, “persistevo nella fede irremovibile che l’epoca dei miracoli crudeli non fosse ancora finita.”

Per approfondire, vedi uno dei miei articoli preferiti: Stanislaw Lem, ovvero la ricerca attraverso l’uomo

E più in generale la sezione del blog dedicata a Stanislaw Lem



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