Nel 1959 la scrittrice statunitense Shirley Jackson (1916-1965) pubblicò il suo capolavoro, ovvero il romanzo L’incubo di Hill House (titolo originale: The Haunting of Hill House), thriller superbo nella quale fuse con equilibrio e fantasia elementi tipici della narrativa gotica e soprannaturale ottocentesca e le più ambiziose istanze del romanzo psicologico moderno, collocandosi su di un filo sottile e trasparente, sul quale la realtà e la sua percezione scorrono liberamente, accordandosi e separandosi, per divenire impalpabili e fluidi.
La storia di svolge al tempo della scrittura del testo, in una grande magione costruita alla fine dell’Ottocento, Hill House, una dimora dalle strane proporzioni e dalla bizzarra e inqualificabile architettura che sorge nei paraggi del paese di Hillsdale, nello Stato del Michigan, voluta dalla oscura e forse perversa fantasia di Hugh Crain.
Hill House
Riducendo all’osso la trama, per rivelare il meno possibile: il professor Montague, uno psicologo che compie studi sul paranormale, invita a Hill House un gruppo di tre persone, due delle quali hanno precedenti di manifestazioni tali da renderli soggetti ideali per la ricerca; a causa della loro storia sono tutti psicologicamente fragili e, con l’esclusione di Luke Sanderson – lì perché sua zia, la proprietaria della casa, non avrebbe concesso l’affitto senza che uno di famiglia fosse presente -, tutti facilmente suggestionabili.
La casa riassume tutte le caratteristiche tipiche delle case infestate: gigantesca, isolata, tetra eppure fastosa, sovrabbondante, pare nata per confondere e soprattutto inquietare; è quindi la location ideale per le sperimentazioni di Montague. Ha una sua spiccata personalità che sfugge alla comprensione; impone soggezione, l’arredo è in legno scuro, le ombre che si affastellano in ogni stanza, ma anche di fronte alla più minuziosa esplorazione c’è qualcosa di inafferrabile che gli ospiti percepiscono come turbamento ma non sanno tradurre né comprendere. Gli angoli, le linee di fuga prospettica, la geometria delle porte fanno sì che quella casa non possa essere dominata neppure con sotto lo sguardo più attento e comunque la si squadri qualcosa non torna mai. I cardini delle porte, tanto per fare un esempio, sono piegati in modo che le porte siano volutamente instabili e si animino, così sembra, di vita propria per tornare sempre irrimediabilmente chiuse.
La storia di Hill house, così com’è narrata nel romanzo, è spettrale di per sé e ovviamente finalizzata alla trama. Fu costruita dal facoltoso Hugh Crain come dimora per la famiglia e regalo per l’adorata moglie, ma purtroppo, il giorno del suo arrivo, per un tragico incidente la carrozza su cui lei viaggiava si schiantò proprio sul viale d’accesso e la povera signora Crain fu portata cadavere nella casa; da allora il marito divenne cupo e sempre più scontroso.
Nonostante il luogo fosse inospitale e tetra, del resto in sintonia perfetta ormai con il suo carattere, Hugh Crain volle crescere e educare lì le sue bambine, e soprattutto dedicò particolari attenzioni alla seconda, scrivendole di suo pugno un agghiacciante libro pedagogico fatto di massime e precedetti, nel quale si minacciavano truci orrori e tormenti infernali per ogni trasgressione.
Il signor Crain si sposò altre due volte ma entrambe le nuove mogli perirono tragicamente e così lui se ne andò in Europa, lasciando a Hill House le bambine, le quali in realtà preferirono trasferirsi da una zia materna.
Alla morte del padre erano ormai due giovani donne e la maggiore, zitella, decise di tornare a Hill House, entrando tuttavia in contrasto con la minore, litigandosi per la suppellettile e gli oggetti d’arte della casa che, si vociferava, venivano sottratte con azioni furtive dalla sorella minore. A farne le spese fu però la dama di compagnia della maggiore, una ragazza venuta da Hillsdale la quale, dopo la morte in circostanze non del tutto chiare della signorina Crain maggiore, rimase da sola a Hill House, sostenendo di averla ereditata, e per questo ovviamente osteggiata e tormentata dall’altra sorella. La questione della successione finì in tribunale con sentenza a vantaggio della dama di compagnia che così divenne legalmente e definitivamente proprietaria, ma nonostante questo l’ultima Crain non cessò mai di angariarla e di organizzare furti nella proprietà fintanto che, per disperazione e per le perfidie subite, la dama di compagnia finì suicida, impiccata ad una torre della casa. Nei decenni successivi, molte altre furono le tragedie che si consumarono tra quelle mura e Hill House si guadagnò il titolo di dimora maledetta.
Mi sono dilungato sulla storia legata alla casa perché pare che la Jackson si sia posta, prima di andare oltre, il basilare quesito se fosse il luogo a rendere malvagia la casa e coloro che vi abitarono o piuttosto se sia stata la cattiveria delle persone a maledire il luogo e questo, anche alla luce di quanto accadrà nella vicenda del romanzo, pare essere un enigma destinato a rimanere irrisolto: noi osserviamo protagonisti che proiettano sulla casa angosce e inquietudini e la casa che ben volentieri le accoglie, le amplifica e le ritorce contro di loro. L’origine del Male, ovviamente, è un quesito atavico con profondissime implicazioni filosofiche, religiose e morali, il Male getta un’ombra costante sulle nostre azioni quotidiane, sul nostro mondo, su di ogni contesto umano, fuori o dentro una casa stregata.
La Jackson così ci presenta Hill House in apertura del romanzo come se volesse metterci in guardia contro i pericoli delle successive pagine o meglio sulla prospettiva migliore per leggere e comprendere il suo romanzo:
Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole le cavallette sognano, a detta di alcuni. Hill House, che non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant’anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porti diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola.
Dentro questo scenario di apparente normalità pare covare una dimensione sconosciuta e insinuante, un tarlo che inizia a rodere la psiche degli ospiti e infine piccoli eventi di trascurabile importanza si ingigantiscono per divenire mostruosi e incontrollabili e ogni scricchiolio, rumore improvviso, alito di vento, divengono manifestazioni spettrali spaventose.
Difatti l’autrice inizia subito a spostare il punto di vista narrativo in soggettiva e in particolare su Eleanor Vance, la prima a vedere Hill House, che così la descrive:
Quella casa, che sembrava aver preso forma da sola, assemblando sì quel suo possente schema indipendentemente dai muratori, incastrandosi nella struttura di linee e angoli, drizzava la testa imponente contro il cielo senza concessioni l’umanità. Era una casa disumana, non certo concepita per essere abitata, un luogo non adatto agli uomini, né all’amore, né alla speranza.
A questo punto la penna della Jackson sale in cattedra e fa sì che il lettore affondi sempre di più nell’immaginazione compromessa dei protagonisti. Il punto di vista della “normalità” che veniva imposto come legge naturale in apertura del romanzo cede colpo su colpo, la scientificità della ricerca del prof. Montague, per quanto bizzarra possa essere, viene continuamente permeata da incursioni sempre più vivide di ciò che naturale, scientifico e normale non è. Ma ormai, qui sta il gioco delle parti, il lettore si ritrova risucchiato nella casa, non diversamente dai personaggi. Vediamo e udiamo ciò che loro vedono e odono, viviamo i loro sussulti, le ansie, i timori e infine il folle terrore di chi sa di aver perso il controllo di sé e della propria razionalità. La protagonista è quindi Eleanor Vance, la cara e controversa Nell e il suo essere protagonista nella vicenda, spesso suo malgrado, genera tensioni all’interno del gruppo, sforando anche in esiti oltre la soglia della metanarrazione. Sarà lei a combattere in prima linea contro Hilla House; già nel momento in cui Eleanor si trovò davanti l’ingresso della casa:
Fu un atto di forza morale sollevare il piede e posarlo sul primo gradino; pensò che la sua profonda riluttanza a toccare Hill House nasceva direttamente dalla vivida sensazione che la casa la stesse aspettando, malvagia ma paziente. […] e posando il piede con decisione salì fino alla veranda e al portone. Hill House le fu addosso in un attimo.
Lo stesso Montague, forse calcando la mano per aumentare la pressione sui suoi ‘collaboratori’:
“Ti guarda” aggiunse all’improvviso. “La casa ti guarda, non si perde una mossa”. E poi: “È la mia immaginazione, naturalmente”.
Naturalmente. Come scrivevo in apertura, il disorientamento degli ospiti ha (in parte almeno) una ragione di natura architettonica che potrebbe spiegare molti degli ‘effetti’ della casa. La mente umana, spiega ad un certo punto il professore, ha bisogno di razionalizzare, per cui dà per scontato che gli angoli di un edificio siano retti, che i piani siano orizzontali e così via; ma a Hill House non c’è niente di tutto ciò: la pianta è labirintica e disassata, gli angoli variabili, i piani inclinati. Niente di immediatamente percettibile ma che alla lunga producono il loro effetto straniante.
“Che cosa succede quando uno torna in una vera casa?” chiese Eleanor. “Cioè… una… sì… una vera casa”?
“Deve essere come sbarcare da una nave” disse Luke. “Il senso dell’equilibrio potrebbe essere così stravolto che qualcuno potrebbe anche soffrire il mal di mare.”
Nessuno, in realtà, sbarcando da Hill House recupererà l’equilibrio e la casa li dominerà, incontrastata.
Il momento culminante della distorsione incombente di Hill House si avrà quando, mai notata in precedenza, viene scoperta in un corridoio una scritta col gesso a caratteri cubitali: “AIUTO ELEANOR TORNA A CASA.” Frase di per sé ambigua, fra l’invocazione d’aiuto o la minaccia. La scritta, in forma simile si ripeterà nella stanza di Theo, scritta con una sostanza che sembra sangue ed emana un fetore nauseabondo, ma nessuno potrà stabilire chiaramente cosa sia. Di entrambe non conosceremo mai l’autore, rimanendo fra i misteri della casa; daranno però adito a malevoli pettegolezzi che aumenteranno la tensione nel gruppo, poiché Theodora incolperà addirittura la stessa Eleanor, alla ricerca di attenzioni.
Eleanor è l’anello debole perché è colei che più di ogni altro nella vita a sofferto, anzi: che non ha mai provato alcuna gioia e per questo è la più vulnerabile. Dopo la prima notte trascorsa nella casa tutto sommato lietamente in un misto di curiosità e noia, Eleanor e Theodora – fra le quali si stabilisce un legame particolare, spesso fatto di aspri contrasti e in continua evoluzione – iniziano a vivere esperienze fuori dall’ordinario. La casa le mette a disagio, l’attesa ancora di più, e l’immaginazione inizia a galoppare. Si condizionano a vicenda e il loro rapporto inizia a incrinarsi quando avvengono le prime manifestazioni notturne con violenti di colpi sferrati alle pareti e alla loro porta, freddo penetrante e risate che aleggiano beffarde. Tutto questo ovviamente scompare improvvisamente all’arrivo degli uomini, Luke e Montague, accorsi alle grida delle ragazze; tuttavia, pur essendo già svegli e anche trovandosi solo dall’altra parte della porta nessuno di loro ha udito alcunché. Qual è dunque la verità?
Questa domanda torna ossessivamente a ogni pagina e non basta certo l’umorismo spesso imbarazzante di Luke ad alleggerire la tensione che si va accumulando. La casa rivolge le sue attenzione su Nell (Eleanor): troppo buona? Troppo ingenua? E lei si lascia coinvolgere completamente da Hill House fino a divenire parte integrante della sua storia e purtroppo lo fa volontariamente:
No: per me è finita. È troppo, pensò, rinuncio al possesso di questa me stessa, abdico, cedo di mia volontà a ciò che non ho mai lontanamente desiderato; qualunque cosa vorrà da me, l’avrà.
Nell, scrive la Jackson, al suo punto d’arrivo, con la sua:
nuova coscienza della casa, sentiva perfino la povere che si posava lieve nelle soffitte, il legno che invecchiava.
Ma non è solo questo: prima dell’ultima notte a Hill House le percezioni di Nell divengono sempre più perfette, il che non fa che allontanarla e isolarla sempre più dai suoi compagni d’avventura, il che significa anche renderla più aggredibile. Mentre tutti sono in sala intenti in varie attività:
Sentì la canzoncina svanire, e avvertì il lieve modo dell’aria mentre i passi si avvicinavano, e qualcosa le sfiorò la faccia; forse un accenno di sospiro contro la guancia, che la fece voltare stupefatta. Luke e il professore erano chini sulla scacchiera, Arthur si protendeva fiducioso verso Theodora, e Mrs. Montague continuava a parlare.
Nessuno di loro l’ha sentito, pensò colma di gioia; nessuno l’ha sentito tranne me.
Dov’è la verità? Un romanzo moderno
Lo stile dell’autrice statunitense è impeccabile: elegantemente classico e coinvolgente, capace di accordare una gamma vastissima di registri, guidato da un acume di rara capacità. L’autrice rifugge ogni compiacimento per l’orrido, il macabro o la violenza, eppure le emozioni che trasmette al lettore sono fortissime e dirette, e senza risparmio.
La stessa definizione del genere letterario è complicata. Spesso, tra le recensioni al romanzo L’incubo di Hill House, troviamo lettori indispettiti che si lamentano che alla fine non si capisce dove sia la verità. I fantasmi ci sono davvero? I protagonisti impazziscono davvero? Be’, pur nel rispetto dei gusti e delle aspettative di ognuno, mi permetto di evidenziare che proprio qui sta la genialità dell’autrice, ovvero il superamento definitivo della narrativa gotica-horror del XIX secolo. Spesso L’incubo di Hill House è messo in relazione a Giro di vite di Henry James, del 1898, il quale, con un prodotto che forse può definirsi incompleto, tentò di elevare il genere su di un piano più squisitamente psicologico. E in effetti lo scrittore newyorkese tirò su le impalcature per creare un racconto volutamente ambiguo, suscettibile di più interpretazioni e il dibattito critico-letterario sul romanzo non mancò di certo. Ma forse James osò troppo poco e l’opera risultò, a mio giudizio ovviamente, certamente elegante ma troppo impalpabile, confusa e slegata al limite dell’incongruenza, almeno rispetto agli obiettivi che l’autore si proponeva di raggiungere. Per metterla in altri termini, risultò un romanzo troppo pulito e formale, entrando in conflitto con i contenuti e lo spessore agghiacciante della materia trattata.
La Jackson infranse queste circoscrizioni e senza sacrificare niente in termini di qualità letteraria, raggiunse il risultato perfetto, potente, disturbante e sublime, amplificato da un finale aperto che potremmo definire quasi brutale per il senso di vuoto improvviso che lascia sotto i piedi, scaricando sulle spalle del lettore il peso enorme del districarsi dalla matassa che è gli stata arrotolata addosso.
Sono i protagonisti stessi a gestire i diversi generi letterari, personaggi che caratterizzano straordinariamente l’opera e che a poco a poco acquistano spessore, personalità e profondità in un crescendo di incredibile e coinvolgente realismo. Ognuno di loro, la fragile e riflessiva Eleanor, l’avvenente e scostante Theodora, l’estraneo e scanzonato Luke, l’appassionato Montague, tessono trame diverse su un ordito comune e intanto il romanzo si colora e si arricchisce con sprazzi di velato erotismo, di suspense, di ghost story classica, di esplorazione e investigazione e di horror, attraverso violenze piscologiche (e non solo) che cadono giù dall’alto sempre più fittamente e prepotentemente: il disegno che risulta alla fine sarà spaventoso e catastrofico.
Ma qual è la vera natura di ciò che accade?
Come il suo predecessore James a Bly Mannor, Shirley Jackson sembra mantenersi affacciata alle finestre di Hill House e da lì osservare i suoi personaggi logorarsi all’interno della casa mentre lasciano nascere, crescere e poi liberarsi mostri capaci di uccidere. Portandoli a Hill House, si è limitata a sfilare il sassolino più basso di uno scoscendimento in equilibrio precario e poi descrivere l’effetto di una frana sempre più rovinosa.
Non solo: l’autrice ha aperto le porte a sofisticate interpretazioni psicologiche e psicanalitiche via via che i protagonisti imparavano a conoscersi e ad aprirsi l’un l’altro, il tutto sempre giocato abilmente su di una linea sfumata, fatta di allusioni mai esplicite, ma che possono facilmente coniugarsi nella quotidianità di ognuno di noi.
Ma quindi ogni evento del romanzo può essere chiarito e spiegato dalla scienza in un’ottica, diciamo così, naturalistica? Nient’affatto. Tra le molte manifestazioni inspiegabili di Hill House la più ostica da risolvere è il cosiddetto “punto gelido” la fine del corridoio delle camere davanti l’ingresso di quella che fu la “camera delle bambine”, le sorelline Crain; lì la temperatura precipita improvvisamente di decine di gradi, tanto che durante le misurazioni e le rilevazioni richieste dal prof. Montague, è necessario darsi ripetutamente il cambio poiché dopo pochi minuti nessuno riesce reggere alcun oggetto con le mani intirizzite né a resistervi.
“Non sembra un freddo imparziale“, disse Eleanor, impacciata perché in realtà non era sicura di quello che voleva dire. “L’ho sentito come un freddo calcolato […] dato di proposito”
Ma è interessante fare un passo indietro e leggere assieme le modalità con cui il gruppo fa la conoscenza del “punto”:
[Il professor Montague] si avviò lungo il corridoio, fino alla grande camera in fondo che un tempo era stata la camera delle bambine. […] e varcando la porta ebbe un brivido. Poi si voltò indietro con un’espressione curiosa.
La novità suscita una vivace attenzione nella comitiva ma tutti entreranno nella camera spiccando un balzo, come per saltare un torrente d’acqua. In realtà, sono parole di Luke, “era come passare attraverso un muro di ghiaccio” e dopo aver manifestato al professore la sua perplessità sul fenomeno, eccone la risposta: “Questo non riescono a spiegarlo” e dopo altre elucubrazioni e confronti con altre case infestate conclude “Il cuore della casa.” Sul punto gelido si costruiranno tante ipotesi, tutte plausibili e tutte vane.
Verso la fine del romanzo, quando il tempo a disposizione ormai volge al termine, il “cuore della casa” decide di lasciar passare indenne Eleanor, la quale si precipita nella camera delle bambine in cerca di risposte, inseguendo voci che vibrano e sfumano tra refoli d’aria.
Arrivata alla soglia, il punto gelido era scomparso.
Il piano inclinato che trascina verso il soprannaturale quindi, se lo è veramente, rimane tale com’è logico che sia: il tentativo del professor Montague di riportarlo in equilibrio e dargli una veste scientifica non produce alcun esito; Richard Matheson, tanto per citare un autore famoso che certamente ha occhieggiato L’incubo di Hill House, nello scioccante La casa d’inferno, mostruoso e folle romanzo horror grondante violenze e aberrazioni d’ogni tipo, alla fine giunge a una soluzione della sua storia, anche a costo di concludere in modo quantomeno grottesco se non involontariamente comico e forse anche risibile. Qua no, assolutamente no: tutto rimane insoluto e avvolto nel mistero di sempre, anzi la vicenda dei nostri protagonisti andrà a infittire ancora di più il perenne incubo che incombe sopra Hill House. E la ragione la conosciamo, ormai: perché ogni quesito su Hill House sta a monte di ogni tentativo di spiegazione, perché non è la tanto natura della casa e dei fenomeni che in essa si manifestano a essere messi in discussione ma piuttosto la natura delle persone. E non si tratta nemmeno del “patto narrativo” con il lettore: la Jackson infatti non ci chiede di sospendere le nostre facoltà critiche, semmai il contrario: ci impone di misurane la capacità di resistere perché, come scrive in apertura del romanzo: “Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà“.
Ovviamente Shirley Jackson ha fatto scuola e L’incubo di Hill House è diventato il termine di confronto di qualsiasi romanzo horror-psicologico. Forse, tra James e lei, potremmo collocare la monumentale letteratura di H. P. Lovecraft, il quale ha dato tantissimo risalto all’orrore senza nome, alla paura abissale e atavica, alla dimensione cosmica dell’ignoto, esercitando sul lettore una fortissima pressione psicologica. Anche la sua è una battaglia contro la follia che distrugge la mente quando è costretta a confrontarsi con dimensioni inumane e innaturali. Ma lì, le creature sono comunque reali, certamente fantastiche ma reali, sebbene accuratamente celate.
L’incubo di Hill House è divenuto la pietra miliare di una realtà più sofisticata e sfuggente. Molti tentativi sono stati fatti cercando di proseguire sulla stessa direzione, ma spesso ricalcandone fin troppo le orme. Fra quanto ho letto, mi pare che assai più degnamente si sia elevato dalla massa L’ospite, di Sarah Waters, molto attaccato dai lettori per i medesimi motivi, segno che l’esperimento è riuscito!
Era il 1862 quando Emily Dickinson…
Insomma, i fantasmi di Hill House sono reali oppure no? Emily Dickinson, straordinaria poetessa connazionale della Jackson, nel 1862 così scriveva:
Non bisogna essere una camera, per essere Infestati; non bisogna essere una Casa. Il cervello ha corridoi che vanno al di là di un luogo materiale. Assai più sicuro a Mezzanotte, l'incontro con un Fantasma esterno, che con uno Interiore; confrontare quel più freddo ospite [...]
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