Nel precedente articolo abbiamo concluso che nella visione futuristica di Arthur Clarke, e mi riferisco in particolare al romanzo 2001. Odissea nello spazio, una prossima evoluzione del genere umano fosse possibile solo attraverso il supporto della tecnologia avanzata. L’idea, in quanto tale, non costituiva certamente una novità ma Clarke deviò dalla traccia tradizionale e legò tecnologia ed evoluzione stessa in modo indissolubile, come se l’uomo fosse ormai già giunto al massimo delle proprie capacità e non vi fosse alcuno spazio qualsivoglia sorta di superuomo, o almeno non senza un consistente apporto esterno. Ma cosa significava per Clarke un “apporto esterno”? A questo punto la questione si complicò.
Infatti, già agli inizi del Novecento Italo Svevo, nel famosissimo ultimo capitolo de La coscienza di Zeno (1923), aveva sgomberato il campo da ogni possibile dubbio: “l’occhialuto uomo”, afflitto dai suoi malanni, sarebbe da tempo perito nell’oblio dell’estinzione se non avesse avuto la capacità di inventare marchingegni, “ordigni” come li definisce l’autore, sempre più sofisticati coi quali sostenersi e preservarsi. In verità nemmeno questo era del tutto vero perché guardando al futuro, l’ultima, apocalittica pagina scritta dal protagonista Zeno, descriveva esattamente l’uomo occhialuto e malaticcio che inventava l’ordigno definitivo, un ordigno vero e proprio, col quale porre fine alla sua esistenza e all’esistenza di tutto.
Clarke per gran parte del suo romanzo procede in parallelo, diciamo così. La sua storia inizia nella “Notte primeva”, in Africa equatoriale, tra un branco di ominidi al limite della sopravvivenza a causa di una siccità che si protrae da milioni di anni. Tra loro, una mattina, appare il celeberrimo Monolite nero, un oggetto alieno dalle straordinarie capacità (e insondabile profondità allegorica) che instilla in uno, uno soltanto degli ominidi, Guarda-la-Luna, nome dall’altissimo potere evocativo e non certo casuale, una scintilla d’intelligenza superiore a tutti gli altri e in conseguenza di questo la capacità mai sperimentata prima di servirsi di un osso come utensile e strumento, segnando per sempre la superiorità di quel gruppo su tutti e su ogni altro essere vivente. Merita riportare l’eccezionale pagina:
“Dopo parecchi minuti di intense riflessioni, pervenne a una spiegazione brillante. Era una pietra, naturalmente, e doveva essere cresciuta durante la notte. Esistevano molte piante che facevano altrettanto… piante bianche, carnose, dalla forma di ciottoli, che sembravano crescere durante le ore di oscurità. […]
Questo esempio davvero superbo di pensiero astratto condusse Guarda-la-Luna, dopo tre o quattro minuti appena, a una deduzione che egli mise immediatamente alla prova. Le piante-ciottoli bianche e rotonde erano molto saporite […]; forse quest’altra, così alta…?
Alcune leccatine e alcuni morsi esitanti lo disillusero rapidamente. Non ci si poteva nutrire con la Nuova Pietra; e pertanto, da uomo-scimmia ragionevole, egli proseguì fino al torrente e dimenticò ogni cosa del monolito”.
Tuttavia Guarda-la-Luna ha osato più di ogni altro e ha stabilito il contatto fatale.
Come ho anticipato, Clarke complica moltissimo il ragionamento, introducendo un fattore alieno, in questo caso davvero alieno ed è un fattore tecnologico. Guarda-la-Luna è completamente inconsapevole di ciò che ha di fronte, ci ragiona, tenta di sfruttarlo ma non ci riesce, o almeno così ritiene. Dopo altre peripezie del nostro antenato e un salto di centinaia di migliaia di anni ci ritroviamo a bordo dell’astronave Discovery, in viaggio verso Saturno, Giapeto, in particolare. Tutto (e tutti) a bordo è posto sotto il controllo del super-computer HAL 9000, fiore all’occhiello della più avanzata tecnologia terrestre. Il calcolatore, a prova di errore, e cosciente della propria infallibilità, nella sua interfaccia con gli operatori è ormai quasi del tutto umanizzato: voce, inflessioni emotive, capacità empatiche e, purtroppo, molto di più.
HAL, quando ormai è tardi per una qualsiasi azione correttiva da parte dell’equipaggio, entra in crisi, manifestando una vera e propria psicosi e tutto questo perché si trova costretto a interpretare un ruolo per lui impossibile e soprattutto compiere un’azione fin troppo umana e del tutto in contrasto con la sua più fondamentale essenza di macchina le cui manifestazioni sono sempre e comunque frutto di un algoritmo, per quanto complesso: ovvero mentire. Era stato infatti programmato per mantenere il più assoluto segreto sulla reale essere natura del viaggio (non lo rivelerò nemmeno io), ma quando la nave si avvicina alla meta, HAL perde la capacità di discernere e non trova altra soluzione che ingannando se stesso (e l’equipaggio), immaginando un guasto all’antenna principale della Discovery, metodo assai grossolano e infantile per tentare di scollegare la nave dalla terra, e dal suo gemello della serie 9000, il quale non soffre dello stesso stress poiché comodamente installato “a casa”, lontano dalla pressione del comandante Bowman e del secondo Frank Poole (gli unici svegli mentre gli altri membri della squadra sono ancora in ibernazione). Da lì gli eventi precipitano e per coprire e rimediare ai propri errori, HAL compirà una serie di azioni dissennate fino al tentativo di eliminare tutto l’equipaggio a bordo.
Ma il romanzo non è ancora finito.
Il monolito, una versione maggiore di quella che era apparsa ai primati africani e la sua insondabile e aliena tecnologia consentono a David Bowman, comandante e unico superstite di proseguire la missione. Abbandonata l’agonizzante Discovery, assisterà all’apertura di una “porta” tra le stelle attraverso la quale intraprendere un viaggio dimensionale che non è solo attraverso lo spazio, o il tempo ma soprattutto attraverso e oltre sé. A questo punto, un’immagine e un’idea vagamente simile a quella del Superuomo torna ad affacciarsi ma senza la connotazione aggressiva. Bowman raggiunge un non-luogo e lì regredisce eppure si evolve in un’entità superiore, ancora legata al corpo ma con un’intelligenza tutta nuova o con poteri inimmaginabili e ancora tutti da sperimentare. Non c’è una definizione adeguata che descriva questo essere: è un Bambino-delle-Stelle, perché da queste è nato; ancora non conosce il proprio potere ma sa che se lo desidera può solcare gli abissi siderali e tornare alla Terra, giusto in tempo per fermare e annientare i missili nucleari che già si stavano innalzando verso i rispettivi obiettivi, solo con la propria volontà.
Poi, come Guarda-la-Luna, “aspettò, chiamando a raccolta i propri pensieri e meditando sui propri poteri non ancora posti alla prova. Poiché, sebbene fosse il padrone del mondo, non sapeva bene ancora che fare in seguito.
Ma avrebbe escogitato qualcosa.”
E con questa formidabile chiusura, inquietante e forse anche minacciosa, termina 2001. Odissea nello Spazio. Clarke volle per il suo romanzo una struttura ciclica che sottolineasse l’effimero orizzonte delle esperienze umane giacché, pur cambiando i tempi, i luoghi e la tecnologia, nella più profonda e intima loro sostanza, gli uomini rimangono gli stessi di sempre, accaniti e feroci, sempre pronti a calpestare la piccola aiuola su cui vivono. Desiderio di supremazia, miopia, smisurata fiducia nelle proprie capacità e nella devozione e affidabilità indiscusse di ciò che abbiamo creato e posto al nostro servizio. È veramente intrigante che l’autore abbia voluto così tanto insistere sulle capacità empatiche, in altre parole sulla umanità di HAL: HAL creato a immagine e somiglianza dell’uomo e non è la prima volta che sentiamo questa frase, ma la prima era nella Genesi.
Quindi, Uomo, Superuomo, Supercomputer e infine Dio? L’avevo scritto che la questione si sarebbe complicata. Clarke cercò un incrocio per tali strade, ma naturalmente non poté né volle trarre conclusioni, né accampare profezie. Ha provato a gettare un’occhiata oltre l’orizzonte mentre Foscolo l’aveva chiuso dentro il meccanismo di un orologio. Chi ha visto giusto? E chi mai potrà dirlo? Onestamente non so cosa pensare, non cosa immaginare mentre giorno dopo giorno, riusciamo a vedere più e meglio nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo. Come ci evolveremo alla luce di tutto questo, ma soprattutto sapremo gestire le nostre conquiste?
Un piccolo post scriptum: Isaac Asimov, nel racconto L’ultima domanda, del 1956, aveva già intuito l’esistenza di quel fatidico quadrivio ma questa è un’altra storia.
Rispondi