L’opera e la vita di Giuseppe Ungaretti sono indissolubilmente legate alla Prima guerra mondiale, tanto che le sue poesie successive sono quasi del tutto ignorate dal grande pubblico; eppure si tratta di appena tre anni in una carriera letteraria di oltre mezzo secolo. Cosa rende quindi la L’Allegria, pubblicata nel 1931 come raccolta finale delle precedenti edizioni, tanto speciale?
Ovvio e scontato evocare capolavori unici come Veglia, Mattina, Allegria di Naufragi, I fiumi, Soldati e via dicendo, opere di straordinaria capacità evocativa, vere e proprie sublimazioni dell’arte poetica del primo Novecento italiano; proviamo però a guardare più in largo e più in lungo, ovvero cercando una prospettiva più ampia e più durevole.
Dov’è la guerra?
Le poesie della raccolta L’Allegria sono tutte datate, giorno e luogo, il che le colloca inequivocabilmente in un preciso teatro di guerra, il Carso a partire dalla fine del 1915, e poi, verso negli ultimi mesi di guerra, nel ’18, sul fronte francese. In realtà, se cancellassimo quelle indicazioni, resteremmo forse più confusi perché quasi non ci sono poesie d’azione, ovvero combattimenti in atto.
Ungaretti non ha mai voluto descriversi durante il combattimento. Piuttosto, presentando la raccolta Il Porto Sepolto, annotava: “Dal momento che arrivo ad essere un uomo che fa la guerra, non è l’idea di uccidere o di essere ucciso che mi tormenta: ero un uomo che non voleva altro per sé se non i rapporti con l’assoluto, l’assoluto che era rappresentato dalla morte, non dal pericolo, che era rappresentato da quella tragedia che portava l’uomo a incontrarsi nel massacro.” Definizione quasi trasfigurata della guerra e del suo più barbaro significato, assai difficile da comprendere se non la si prova, immagino. E più avanti continua con la celebre osservazione: “… non amo la guerra. Non l’amavo neanche allora, ma pareva che la guerra s’imponesse per eliminare finalmente la guerra. Erano bubbole, ma gli uomini a volte s’illudono e si mettono in fila dietro alle bubbole.”
Per questo motivo, immaginando il giovane Ungaretti acquattato nel fango delle trincee sulle pendici del Monte San Michele da scalare sotto il tiro austriaco, mi piace leggere l’intera raccolta come il tentativo di sopravvivere alla guerra, fisicamente, è ovvio, ma soprattutto psicologicamente. Ogni sua poesia è un tentativo di evasione, è la ricerca di dimensioni assolute e di luoghi immaginati che l’avrebbero protetto da quella follia; e quando la follia era a un passo da lui, è sempre riuscito a spingerla via, aggrappandosi con tutte le sue forze a un “albero mutilato”, scrivendo “lettere piene d’amore” oppure, come letto sopra, trasformando gli spari in un familiare ticchettio di scalpellini al lavoro a lastricare, come ci racconta in una nota, le strade di Alessandria.
Allora la guerra dov’è?
Dopo qualche breve smarrimento già presente in Lindoro di deserto (Cima Quattro, 22 dicembre 1915), la prima devastante breccia si aprì il giorno successivo con la poesia Veglia (Cima Quattro, 23 dicembre 1915).
Ungaretti era entrato negli effettivi del 19° Battaglione il 2 del mese e sicuramente il 5 dicembre aveva raggiunto il fronte, impegnato nel tritacarne del Monte San Michele, sul Carso. Gli austriaci erano trincerati in vetta sulla difensiva e l’assedio andava avanti da mesi con offensive ripetute e scarsi risultati da parte dei due reggimenti italiani lì dispiegati, le cui perdite ammontavano già a 520 morti, quasi 2000 feriti e 139 dispersi.
Nella poesia, scritta l’antivigilia di Natale presumibilmente dopo la conclusione di uno scontro a fuoco, non può far a meno di indugiare sulla descrizione del martoriato compagno morto e congelato così come non può esimersi da farsi carico della sua terribile bocca e delle sue livide mani per scrivere lettere colme d’amore. Questa è la missione e la maledizione del poeta: riconoscere l’umanità in ogni momento, in ogni luogo, in ogni circostanza, e attraverso l’umanità salire all’assoluto.
Quindi, Veglia è la prima poesia in cui si tocca con mano la guerra combattuta, non tanto in azione ma piuttosto attraverso la compassione diretta per le vittime dopo la battaglia.
Nel 1969 Ungaretti avrebbe scritto: “Incomincio Il Porto Sepolto, dal primo giorno della mia vita in trincea, e quel giorno era il giorno di Natale del 1915, e io ero sul Carso, sul Monte San Michele. Ho passato quella notte coricato nel fango, di fronte al nemico che stava più in alto di noi ed era cento volte meglio di noi. Nelle trincee, quasi sempre nelle stesse trincee, perché siamo rimasti sul San Michele anche nel periodo di riposo, per un anno si svolsero i combattimenti.”
Dopo Veglia le poesie scorrono cadenzate, nella continua riscoperta dell’universo, nello stupore suscitato e raccolto tra piccole cose, momenti, dettagli troppo spesso trascurati. Il 15 luglio del 1916, a Mariano del Friuli, Ungaretti compose la celebre
Fratelli Di che reggimento siete fratelli? Parola tremante nella notte Foglia appena nata Nell'aria spasimante involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità
Fratelli
La guerra torna quindi nella dimensione cosmica tipicamente ungarettiana che confermerà anni dopo: “Nella mia poesia non c’è traccia d’odio per il nemico, né per nessuno: c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione”.
La battaglia per il San Michele tuttavia continuava e parimenti lo smarrimento del soldato-poeta. Trascorsa l’oasi di pace narrata in C’era una volta (Quota Centoquarantuno, l’1 agosto 1916) dopo pochi giorni la poesia Sono una creatura (Valloncello di Cima Quattro, il 5 agosto 1916) piomba come un macigno stritolatore sul cuore di Ungaretti.
Quella stessa notte, o la successiva, la poesia In dormiveglia è datata il 6 agosto, stesso Valloncello e la battaglia infuria in diretta. Lo scontro a fuoco pare non coinvolgere Ungaretti in prima persona, anzi la sua impotenza di fronte a tanta violenza è ancora più frustrante. Un po’ come in Veglia, non può far altro che assistere, elargendo la sua umanità. Ecco la prima parte della poesia:
In dormiveglia (Valloncello di Cima Quattro, il 6 agosto 1916) Assisto la notte violentata L’aria è crivellata come una trina dalle schioppettate degli uomini ritratti nelle trincee come le lumache nel loro guscio Mi pare che un affannato nugolo di scalpellini batta il lastricato di pietra di lava delle mie strade ed io l’ascolti non vedendo in dormiveglia
Come si legge, dopo la prima strofa, fatta di spari, paura, morte e brutalità, il bisogno di estraniamento del poeta, l’impellente e vitale necessità di distanziarsi dalla guerra si animano sotto le “schioppettate”, peraltro già esorcizzate nell’ardita ossimorica similitudine della trina, nella quale c’è aria di serenità e di operosità domestica. Su questa spinta, l’ossimoro diviene un’ancor più sofisticata analogia, quasi una metamorfosi escheriana che trasforma il crepitare delle armi in un altrettanto assiduo lavorio di un “nugolo di scalpellini”.
La poesia nel finale sfuma in uno torpido dormiveglia, con la realtà che percepiamo sfuggirci tra le dita, un ovattato ticchettare come il pendolo dell’orologio di casa, ancora la casa, che tiene fuori il male. La medesima necessità di abbracciata protezione era già palese nella poesia C’era una volta (Quota Centoquarantuno l’1 agosto 1916), di appena cinque giorni prima, nella quale la mente non era volata agli scalpellini alessandrini ma alle ovattate atmosfere di un caffè parigino, di prima della guerra, appisolato nella penombra in una soffice poltrona, tra il chiacchiericcio ormai distante degli avventori.
Gli effetti della Guerra
Durante la guerra, sono parole sue, Ungaretti riscopre una nuova umanità, con sorpresa, stupore, orrore. L’esperienza della morte, così come ce ne ha parlato lui (si torni all’inizio di questo articolo), ovvero come manifestazione dell’assoluto, della ultima e definitiva alla quale può essere sottoposto un uomo, come pure della vita, assaporata e centellinata goccia dopo goccia, deve necessariamente passare dall’osservazione. Come ripeto sempre ai miei studenti: “Se davvero volete comprendere una poesia, dovete prima vederla, dovete essere lì col poeta, vedere coi suoi occhi, sentire con le sue orecchie, percepire al tatto la stessa sensazione. Allora la poesia si schiuderà da sé.” Be’, non è sempre così semplice ma rimane un passaggio imprescindibile. E dunque Ungaretti osserva e descrive, instancabilmente. Come ho in più occasioni ricordato, cerca una collocazione per se stesso nell’universo, altra definizione forse dell’Assoluto, soprattutto nella follia della guerra; cerca di rimanere aggrappato all’albero mutilato di I fiumi, oppure, sempre lì, quando saltella come un acrobata di sasso in sasso, terribile analogia con l’andamento zigzagante dei soldati alla carica sotto il tiro nemico, oppure, non meno tragico, immagine del disperato tentativo di rimanere in equilibrio mentale tra tanta pazzia.
Ecco, allora sì: lette in questo senso, le poesie dell’Allegria lacrimano guerra da quasi ogni pagina. Anche le poesie dove luce e speranza esplodono, dilatando l’orizzonte oltre l’umano comprensibile, valga per tutti Mattina; dobbiamo leggerle come temporanee crepe nelle trincee, prontamente suturate dalla morte e dalla guerra anche quanto è sfuggito da tali crepe, seppur per un attimo senza dimensione, il poeta l’ha colto e messo in salvo.
Sono molti i sentimenti che Ungaretti affronta, e contrastanti. Spesso intraprende una via che potremmo definire di assimilazione con quanto lo circonda, soprattutto in riferimento non tanto all’azione quanto all’essere lì, in quel preciso momento e luogo, sentirsene parte, nel bene quanto nella sofferenza. In quest’ottica si spiegano facilmente i ricorrenti pensieri per chi non c’è più (da In memoria, dedicata all’amico e poeta libanese Moammed Sceab), o per i luoghi perduti (Lindoro di deserto, Stasera, Fase, l’elenco potrebbe continuare), nelle quali la guerra appare lontana e distaccata, quasi impercettibile.
Oppure, in altri componimenti, ritorna in tutta la sua brutale realtà: Sono una creatura, Pellegrinaggio, ma soprattutto, vero trait-d’union tra memoria e presente, la celebre San Martino del Carso (Valloncello dell’Albero Isolato, il 27 agosto 1916), pervasa dal devastante senso di colpa di chi è arrivato troppo tardi, di chi è sopravvissuto e deve portare il fardello della memoria di chi non c’è più.
Speranza e disperazione
La speranza è una pericolosa alleata, specialmente in tempo di guerra, se la speranza è l’ultima a morire la speranza anche delude sempre, come canta Turandot nell’omonima opera pucciniana. Tuttavia, come rinunciarvi, quando le pallottole fischiano e colpiscono il compagno accanto?
Il secondo gruppo di poesie di Ungaretti, composte dal dicembre 1916 all’agosto del ’17, portava il titolo di Naufragi, argomento già affrontato in queste pagine, a partire dall’opera
Allegria di Naufragi (Versa, il 14 febbraio 1917) E subito riprende il viaggio come dopo il naufragio un superstite lupo di mare
Non c’è tempo per indugiare consumarsi in lamentazioni, gli imprevisti, le avversità, come un naufragio nel quale si perde tutto salvando solo la vita, il lupo di mare non si arrende e riacciuffa le redini della propria vita. Facile a dirsi. Eppure quest’idea Ungaretti l’ha sempre avuta chiarissima nella propria poetica. Nella già citata Pellegrinaggio, scritta l’anno prima, la speranza costituisce un pilastro portante. Leggiamola per intero.
Pellegrinaggio (Valloncello dell’Albero Isolato, il 16 agosto 1916) In agguato in queste budella di macerie ore e ore ho strascicato la mia carcassa usata dal fango come una suola o come un seme di spinalba Ungaretti uomo di pena ti basta un’illusione per farti coraggio Un riflettore di là mette un mare nella nebbia
Pur all’interno di un ritratto terrificante della vita dell’uomo-soldato, l’uomo-poeta riesce a trovare un appiglio per farsi coraggio e andare avanti. Certo, non è sempre così, talvolta l’uomo è più debole del poeta e la disperazione, parafrasando Petrarca, gli “vien dietro a gran giornate”, ovvero lo insegue sempre più incalzante e quando lo raggiunge lascia un solco profondo, come i panni sudici di guerra della poesia I fiumi, che nessuna acqua potrà mai riuscire a lavare, o come le grida disperate e selvagge di Solitudine (Santa Maria la Longa, il 26 gennaio 1917), mosse da un senso di ribellione al presente che sembra anticipare il “barbarico Yawp” di Whitman (Il canto di me stesso, n. 52), anche se i contesti sono veramente molto diversi.
La cupa desolazione di Solitudine si dissolse dopo poche ore nella scrosciante luminosità di Mattina (Santa Maria la Longa, il 26 gennaio 1917).
Sarebbe follia immaginare che tutto quindi si risolva, che tutto passi senza lasciare traccia. Le croci di Sono una creatura rimarranno per la vita e se ne aggiungeranno altre e di peggiori. Rimanendo e concludendo l’argomento, ecco perché mi piace interpretare Soldati (Bosco di Courton, luglio 1918) non tanto come episodio puntuale e terminale di una fine, ma piuttosto come analisi di un processo, del progressivo accartocciamento, esaurimento, inaridimento dell’uomo, fino all’inevitabile.
Sono spunti di riflessione davvero affascinanti. Spero di non esser stato troppo prolisso.

“pareva che la guerra s’imponesse per eliminare finalmente la guerra. Erano bubbole”
Le stesse che ci raccontano oggi, in effetti. Dove anche il rifornire di armi una nazione dovrebbe essere fatto per dare fine al conflitto.
Diciamo che questo potrebbe teoricamente valere se il rapporto di forza fosse molto impari (diciamo 10:1): il più forte con uno “schiaffo” farebbe immediatamente capire chi è il più forte.
Ma ormai le guerre non sono più di trincea, si giocano su piani differenti (ci sarebbe anche la diplomazia, tra l’altro), e uno non è “più forte” in senso assoluto.
Ad ogni modo, come dice il Papa, la guerra rende tutti sconfitti, e credo abbia ragione.
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Già. Ma nella retorica della Grande guerra si era andati oltre, la guerra che avrebbe eliminato tutte le guerre, il paradosso assoluto. Mi fa venire in mente, con un po’ di raccapriccio, lo slogan di un’acqua in bottiglia: “L’acqua che elimina l’acqua”. Ma forse in fondo è così: noi creiamo la guerra –> la guerra elimina le persone –> le persone eliminano le persone –> noi eliminiamo noi stessi.
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