Ripensando alle numerose simmetrie della Divina Commedia di Dante, un interessante percorso da esaminare è proprio la ricerca della “retta via” smarrita che rimbalza dal primo canto dell’Inferno ai primi canti del Purgatorio, e, a voler esser pignoli, attimi di vertiginoso smarrimento li proverà anche durante il suo sollevamento sempre più su, di cielo in cielo, anche se essenzialmente dovuti alla incommensurabile sproporzione tra le sue capacità di comprendere le dimensioni dell’Universo paradisiaco, traboccanti della forza del Divino.

Ma torniamo alla “retta via” smarrita. Su cosa sia e cosa rappresenti, credo siamo tutti d’accordo: è la strada che ricongiunge l’uomo a Dio, che ricrea l’armonia e la perfezione originaria e poi perduta, è il percorso di purificazione che libera l’uomo dalla schiavitù del peccato perché possa così tornare ai premi celesti. Dopo la caduta primigenia questo cammino è divenuto agli occhi degli uomini irto di tortuosità e difficoltà: Dante ce ne narra con dettaglio nel canto I dell’Inferno (vedi Sui versi iniziali della Divina Commedia). Eppure il problema torna, pare irrisolto, nel secondo canto del Purgatorio. Nel primo caso Dante si è perso nella selva tenebrosa: accumulando errori su errori (peccati su peccati) si trova costretto da ogni lato tra alberi minacciosi e fiere ancor più temibili tanto che il suo andare sarà del tutto impedito. Poi ci sarà l’incontro, non così fortuito, con Virgilio, e con la sua guida si instraderà verso più giusti passi, almeno finché gli sarà possibile. Nel secondo, tanto lui che la sua guida, cercheranno a tentoni il percorso da seguire e solo grazie all’aiuto altrui saranno in grado di venirne a capo.

In realtà, differenze ce ne sono. Proviamo a immaginare e confrontare allora un paio di circostanze.

A sprofondare negli orrori degli abissi infernali, nell’aura morta e senza tempo da vivi c’è da perdere la ragione e difatti la sanità mentale del poeta fiorentino sarà messa a dura prova: gli servirà del tempo a farsi le ossa e in più occasioni sverrà per l’eccessivo shock emotivo, tanto che solo a ripensarci, ci dice più volte, gli torna la tremarella anche dopo anni. Tuttavia segue con fiducia la sua guida che gli toglie costantemente le castagne dal fuoco. Nel buio Inferno, senza riferimento alcuno, Dante ha una vaga cognizione dello scorrere del tempo e della strada percorsa; in ultimo, la risalita verso il Purgatorio nell’altro emisfero lo confonderà ancora di più, venendo a mancare al suo senso del tempo una buona mezza giornata. Fortuna che Virgilio si è rivelato una guida sicura ed esperta che sembra avere una chiarissima visione di ogni passo davanti a sé; del resto, il Paradiso stesso si è mosso per accollargli lo sbandato poeta fiorentino. Tanto basta per lui per accettare l’onore dell’incomodo, e i due poeti dopo non trascurabili fatiche emergono sulla remota isola del Purgatorio quando la notte è ormai prossima a cedere alle prime luci dell’aurora.

Finalmente fuori da quel luogo agghiacciante, Dante è incantato dalla visione del firmamento australe (perché sì, l’isola del Purgatorio emerge dall’oceano nell’altro emisfero, secondo la geografia del tempo tutto acqueo) e, poeticamente parlando, dà subito prova di virtuosismo componendo elaborate terzine nelle cui circonvoluzioni retoriche si dà conto delle coordinate temporali e geografiche di quel preciso momento e luogo. Ma se Dante è così capace di guardare lontano e orientarsi non lo è altrettanto nelle immediate vicinanze, e con lui Virgilio. Nessuno dei due sa come e dove inizi la salita verso la vetta del Purgatorio le cui pendici paiono tanto erte e inaccessibili che la scogliera ligure, scrive, al confronto è una scala agevole e aperta. Accipicchia!

Mossi pochi passi vengono subito intercettati dall’attento guardiano del secondo Regno, Catone Uticense il quale, sinceratosi che non si tratti di due dannati in fuga, cosa della quale si sarebbe molto meravigliato, si rasserena un po’ ma alla domanda di Virgilio sulla direzione da seguire per andare su, senza sbottonarsi troppo afferma che: “lo sol vi mostrerà, che surge omai, \ prendere il monte a più lieve salita”; in altre parole, alla luce del sole capirete da soli da quale parte il monte è più accessibile. Catone reputa quindi i pellegrini – del resto ha appena saputo che sono lì per Altissima concessione – sufficientemente cogniti per orientarsi e trovare la retta via. Molto interessante, ma sbagliato. 

Intanto che i due poeti vagolano sulla spiaggia alla ricerca del passaggio, e prima per una rituale purificazione di Dante dalle caligini infernali, s’è fatto ormai giorno e dall’orizzonte marino proprio lui scorge una luce avvicinarsi rapidissima: si tratta dell’angelo di Dio, nocchiero di nuove anime purganti appena traghettate dal lido di Ostia, ove secondo la tradizione si radunano in attesa del passaggio verso l’isola. Al loro sbarcare, i nuovi arrivati non sono meno disorientati dei nostri poeti, tanto che al loro incontrarsi ne nasce un curioso dialogo:

quando la nova gente alzò la front
ver’ noi, dicendo a noi: "Se voi sapete
mostratene la via di gire al monte"
E Virgilio rispuose: "Voi credet
forse che siamo esperti d’esto loco
ma noi siam peregrin come voi siete". (Purg., II, 58-62)

Caso vuole che tra i nuovi arrivati Dante incontri l’amico e musicista Casella, del quale sappiamo ben poco, anzi, sappiamo solo quanto leggiamo in questi versi. Di tale inaspettato evento ne abbiamo già parlato (cfr. Il viaggio verso la conoscenza di Dante Alighieri, prima parte) ma è utile ricordare come l’ascolto della canzone Amor che ne la mente mi ragiona per l’occasione musicata distolga le anime purganti dal proseguire il loro salvifico viaggio (ancora una volta la retta via) e da qui l’asprissimo intervento di Catone piombato a redarguire l’inopportuna distrazione e disperdere gli “spiriti lenti”.

Tutto da rifare: tutti fuggono in ogni direzione come piccioni spaventati, Dante e Virgilio compresi – ma almeno sono assieme -, senza sapere se sia la direzione giusta. A debita distanza, cessata l’urgenza di tanta fretta, si ripropone la questione: 

“Or chi sa da qual man la costa cala”,
disse ’l maestro mio fermando ’l passo,
“sì che possa salir chi va sanz’ala”? (Purg., II, 52-54)

Al successivo incontro, siamo ormai ben addentrati nel canto III, Virgilio affronta per la terza volta il quesito, la cui soluzione sarà rimandata ancora, dopo i convenevoli e le narrazioni necessarie allo svolgersi della Commedia, all’inizio del canto IV.

Ma allora, perché tanto mistero e tanta difficoltà a trovare la “retta via” in quel luogo di grazia? A pensarci, varcata l’oscura porta e lasciata ogni speranza, sebbene comprensibilmente riluttanti le schiere dannate sapevano esattamente dove andare, rispondendo alla divina giustizia che le pungeva a imbarcarsi dal temibile Caronte, presentarsi al di là dell’Acheronte a Minosse, confessarsi e da lui ricevere la sentenza, senza appello, della pena per l’eternità. Nel Purgatorio invece bisogna arrangiarsi; com’è possibile? Mi viene l’idea che per quanto “spiriti eletti”, “ben nati”, o comunque di volta in volta Dante le definisca, le anime del Purgatorio non godono di una salvezza blindata e garantita; nessuno la toglierà loro, è vero, ma loro stessi, e sempre a causa delle proprie azioni, possono ancora perderla, eccome! Lo sviamento nell’ascoltare Casella ne è, guarda caso, un freschissimo esempio. La loro umanità e l’appagamento per le cose di quaggiù sono ancora un fardello ingombrante e la tentazione è costantemente in agguato. Non per nulla, nel canto VIII del Purgatorio appare di nuovo la “mala striscia”, il serpente tentatore che dal Paradiso terrestre ormai deserto di uomini e donne è sceso un po’ più giù per insidiare la rettitudine e la fermezza delle anime purganti.

La retta via quindi è un percorso complicato: non basta imboccarlo, va saputo tenere passo dopo passo senza distrazioni, pena un fatale inciampo; e non è tutto. Il sapere umano non basta e in questo frangente non ci aiuta, semmai il contrario: che si tratti di esperienza, saggezza, di acume e perspicacia filosofica o scientifica, presto o tardi tradirà invariabilmente i limiti del suo stesso ambizioso essere. Il buon Virgilio, ahilui, ne ha già fatto le spese: dopo aver guidato fuori il suo condotto tra le peggiori insidie che si possano immaginare, anzi oltre l’immaginabile, adesso deve fare i conti con la propria insufficienza. Se n’è già parlato poco sopra e altrove, per altre ragioni. Rivediamo questo passo nella nuova luce (cfr. Il viaggio verso la conoscenza di Dante Alighieri. Seconda parte).

Dopo la precipitosa fuga in seguito all’irruzione di Catone nel bel mezzo del concerto di Casella, Virgilio e Dante rallentano il passo. Sappiamo che il fiorentino è vivo e attraversa i tre regni ultraterreni col suo corpo tutto intero, per questo a terra vede la sua ombra mentre le anime, impalpabili, si lasciano attraversare senza ostacolo dai raggi del sole. Così, sovrappensiero diremmo noi, nota soltanto davanti a sé il terreno oscurato e temendo di essere stato abbandonato si volge di scatto. Virgilio in realtà è fedelmente accanto a lui, onorando l’alto incarico affidatogli, ma intuisce il motivo di quel sussulto e coglie l’occasione per una dissertazione sull’essenza degli spiriti e soprattutto sulla fallacia dell’intelletto umano che sempre mostrerà i propri limiti e anzi quanto più vorrà innalzarsi nella comprensione di misteri inaccessibili tanto più lascerà frustrati e puniti al momento della resa. È una condizione inevitabile che va accettata “al quia”: così è, e tanto deve bastare. Forse Virgilio non l’aveva ancora del tutto chiaro ma adesso sì e per questo prova un’acuta fitta dentro di sé che lo fa chiudere in un meditabondo silenzio. Dante invece non ha (ancora) capito niente; non si rende minimamente conto di quanta strada debba ancora percorrere anzi, è evidentissimo come la sua totale umanità sia davvero il duro “scoglio”, è metafora di Catone, che lo separa da Dio. E allora, goffamente, tenta di consolare Virgilio, immaginando ingenuamente che la contrizione del suo maestro sia dovuta alla mancanza di accortezza all’incontro con di Casella. Se avesse davvero potuto vedergli dentro! Lo farà, ne sarà costretto, e lo farà anzi dentro se stesso e allora sì che comprenderà fino in fondo. Mi riferisco ovviamente all’episodio della durissima reprimenda di Beatrice nei suoi confronti, nel Paradiso terrestre (Purg., XXXIII), e lì, curiosamente (certi atteggiamenti sono proprio duri a estinguersi), a prendere le parti di Dante (come lui aveva tentato nei confronti di Virgilio) saranno gli astanti che reputeranno eccessive severe le parole di Beatrice. La santa donna zittirà anche loro. Non a caso, rivolgendosi al poeta gli dirà:

Ed ella a me: “Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
sì che non parli più com’om che sogna”. (Purg. XXXIII, 31-33)

A questo punto desidero che ti liberi da ogni timore e vergogna così che tu non parli più come chi vive nel mondo dei sogni. Disviluppe è un tipico neologismo dantesco che significa il contrario di invilupparsi, avvolgersi; in altre parole che spogliarsi del duro scoglio che già Catone gli aveva visto così chiaramente addosso.


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4 pensieri riguardo “Dante e la continua ricerca della “retta via”

      1. Grazie a te per la risposta! Colgo l’occasione per segnalarti che ho appena pubblicato un nuovo post, in cui ho condiviso un caro ricordo giovanile… spero che ti piaccia! 🙂

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