Be’, può sembrare lapalissiano mettersi a ragionare su un tema che è il fondamento stesso dell’opera in cui se ne parla, ovvero l’aldilà nella Divina Commedia di Dante Alighieri. Probabilmente è così ma credo che alcuni aspetti possono essere dettagliati con più attenzione. Parto dall’inizio: il desiderio di indagare più a fondo me l’ha solleticato Vittorio Sermonti il quale nel suo saggio sul Il Purgatorio di Dante ha scritto che le anime che incontra sulla spiaggia dell’isola sono spaventate dalla presenza di Dante. Il suo essere creatura ancora animata (ovvero la cui anima è ancora legata al corpo) è manifesto già nell’Inferno ma ancora di più lo diviene in effetti nel Purgatorio quando col suo corpo ancora di carne fa schermo ai raggi del sole, disegnando un’ombra scura sul terreno, azione impossibile alle anime, dettaglio invisibile nell’oscurità del baratro infernale.

Premesso questo, ho provato a mettere assieme alcuni concetti. 

Fantasmi tra noi

I fantasmi sono sempre esistiti e il problema con loro è da sempre lo stesso: queste inquiete creature in bilico sul confine col regno dei morti riescono ad affacciarsi di qua a disturbarci e spaventarci, in genere è questo che accade anche se nel corso dei millenni e delle culture l’idea di fantasma, spirito, spettro o anima che dir si voglia è cambiata moltissimo. Riassumendo e generalizzando grossolanamente, gli antichi egiziani ad esempio ritenevano che esistessero diversi tipi di “anima” ma potevano essere riassunti nel ba e nel ka. Il primo era la parte spirituale e immortale della persona defunta, quella che deteneva tutta l’essenza della persona stessa e sopravviveva nell’aldilà, in eterno (la nostra stessa idea di anima). Il ka era il problema da gestire: era la parte vitale della persona e con le sue fattezze, spesso fin troppo esuberante, che doveva nutrirsi e per contrastare la sua tendenza ad allontanarsi dai morti e intrufolarsi tra i vivi doveva essere circoscritta con formule rituali, guinzagli magici incisi sul sarcofago o sulla falsa porta grazie alla quale il ka poteva uscire dalla bara per cibarsi delle offerte ma senza allontanarsi.

Il mondo greco fu un’eccezione. Sì, certo, si credeva agli spettri intesi come anime dei defunti ma questi, nella loro diafana essenza, rimanevano confinati nell’Ade senza scampo. Per questo motivo solo pochi eroi erano riusciti a rivedere i propri cari scendendo laggiù e non prima di aver adottato qualche accorgimento preparatorio e ricevute accurate istruzioni comportamentali.

Con i romani la cosa iniziò a prendere una piega diversa: il culto dei morti si fece più ricco e la memoria dei defunti divenne un rituale fondamentale da preservare e così familiari e antenati trapassati furono venerati in appositi sacrari domestici, anche per evitare spiacevoli intrusioni. Infatti, chi non aveva questa fortuna, be’, sfogava la sua tempestosa animosità coi vivi: tra le mura delle case degli antichi romani dell’aldiquà facevano visita infatti i cosiddetti lemures, i lemuri, ovvero spettri vampireschi di anime tormentate e in eterna pena che non trovavano pace e si accanivano su una vittima terrena facendola uscire di senno, salvo rituali propiziatori e scongiuri.

I fantasmi nel Medioevo

Con la cultura cristiana dominante il mondo dell’aldilà fu ridisegnato in una geografia profondamente diversa ma i tratti in continuità furono più duraturi di quanto si pensi. I lemures certamente scomparvero ma si tramandò nel vocabolario il sostantivo larvae, da cui le nostre larve, con il quale genericamente si intendevano i fantasmi. Se ci pensiamo, era una definizione perfetta, poiché la larva è un essere incompiuto esattamente come il fantasma, morbosamente attratto dal mondo dei vivi dal quale non riesce a staccarsi e quello dei morti al quale non si rassegna.

Ma i fantasmi del primo Medioevo erano bonaccioni, creature ciondolanti, apparentemente poco senzienti e coscienti, ma pur sempre defunti e non sempre accolti con serenità. In più, la loro visione non era neppure un buon pedaggio perché solo coloro che erano vicini alla propria morte ne avevano cognizione e a quel punto di non ritorno ne vedevano tutto intorno: amici e parenti che li avevano preceduti e adesso si accalcavano per un messaggio di conforto, saluto e accompagnamento negli ultimi passi quaggiù.

Tuttavia l’aldilà cristiano era decisamente complicato: oltre all’eredità pagana in vario modo rimodellata, c’erano ancora nel XII e XIII secolo luoghi maledetti nei quali seppellire presunti dannati fuori dalla terra consacrata e quindi candidati certi a tornare di qua come fantasmi arrabbiati; c’era l’inferno e poi il purgatorio, quel luogo intermedio e non ancora teologicamente ben definito dove sostavano le anime in attesa di accedere alla mensa paradisiaca. A questo punto, com’è facile immaginare, lo scenario si oscurò.

Il Trecento poi fu il secolo della Morte. La sciagure che si abbatterono su quei cent’anni della nostra storia, dai contemporanei furono reputate non a torto segni dell’Apocalisse imminente: carestie senza precedenti, disordini sociali, economici, devastanti guerre e infine la Peste nera ovvero la grande epidemia che dal 1347 al 1352-53 sterminò un terzo della popolazione del continente, lasciandolo in uno stato di tale prostrazione che servirà un altro secolo e mezzo per colmare quel deficit.

A parte le grane politiche che sconquassarono l’Italia del  tempo, Dante conobbe, almeno cronologicamente parlando, solo la grande carestia, ovvero due pessime annate che nel 1313 e nel 1317 affamarono anche le popolazioni dell’Italia e nel nord Europa andò molto peggio. Sta di fatto che nel corso del secolo perfino l’arte cambiò e la Morte mietitrice e gli “effigiati scheletri” di memoria ancora foscoliana divennero scomodi ma tragicamente quotidiani compagni dell’uomo medievale.

Ma prima del loro macabro dilagare circolava già un’antica leggenda, forse risalente al XII secolo, quella del cosiddetto Incontro dei tre vivi e dei tre morti. Secondo questa novelletta esemplare, tre baldi e arroganti cavalieri si imbatterono in tre cadaveri orridamente putrefatti di altrettanti loro simili. I vivi stavano per andarsene disgustati ma uno dei morti iniziò a parlare, ricordando che anch’egli un tempo era stato come loro e questi sarebbero inevitabilmente diventati come i tre cadaveri. Da qui l’urgenza di un sincero ravvedimento perché l’inferno li stava già aspettando. Un’eco chiarissima di questo monito risuonava ancora al tempo in cui Masaccio dipingeva in Santa Maria Novella la Trinità (1427) poiché lo scheletro dipinto nella predella dell’affresco sentenzia a chiunque gli rivolga lo sguardo: “Io fu’ già quel che voi siete e quel ch’io son voi sarete”. 

Dal pieno Medioevo comparvero però anche nuove creature molto brutte e cattive. Già per il XIII secolo abbiamo evidenza archeologica di uomini (e donne) sepolti con un paletto piantato nel petto; in sepolture più tarde sono stati trovati corpi furono inumati con un sasso ficcato a forza nella bocca oppure con spalle e caviglie inchiodate con chiodi da carpenteria al fondo della cassa o direttamente nel terreno, oppure anche, scioccante da vedere, con una lama di falce piazzata di traverso sopra il collo del morto. Insomma tutti espedienti (anche il sasso, fidatevi) perché il defunto che si presumeva si sarebbe risvegliato come misteriosa e dannata creatura della notte non uscisse dalla sua bara a contaminare col suo immondo e traballante passo la terra dei viventi.

Dal tardo Medioevo poi riprese vigore anche la magia nera, la negromanzia e la possibilità di mettersi in contatto con Satana stesso; e così nuovi e più tenebrosi scenari si allargarono sull’inquieto sonno dei vivi.

Potremmo andare avanti secolo dopo secolo, caratterizzando l’evolversi del rapporto sempre più disturbato dell’uomo con la Morte e con l’aldilà. Nel frattempo, chi vuole, potrebbe andare a visitare il Museo delle Anime del Purgatorio presso la chiesa romana del Sacro Cuore del Suffragio (c’è anche il sito web) e ne vedrà delle belle.

Insomma, per farla breve, che i fantasmi spaventino i vivi è un fatto che torna logico a tutti quanti, che i vivi vadano a disturbare i morti meno. Allora vediamo meglio.

I morti e la Divina Commedia

Se ci pensiamo, Dante collaziona quasi tutte le tradizioni finora descritte e ne fa un poema. Se in primis i morti si facevano avanti per redarguire i vivi sui tormenti eterni, questa era l’esatta condizione nella quale si trovava il poeta, forse non tanto la morte del corpo, giacché nessuno ne è a conoscenza, ma certamente aveva la chiarissima percezione del suo traviamento; ecco che la buona e beata Beatrice, dopo un percorso un po’ tortuoso, si prende cura del morituro (nell’anima) e invoca l’aiuto di Virgilio.

Mi viene automatico pensare alla parabola evangelica di Lazzaro e del ricco epulone. Alla loro morte il primo è accolto in cielo e il secondo all’inferno e da lì, disperato, invoca Abramo affinché Lazzaro possa avvisare i suoi familiari e si mettano sulla retta via e non facciamo la sua stessa fine: “Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi.” (Luca 16,19-31)

Il Vangelo quindi non giustificava alcun passaggio o interferenza tra vivi e morti, anche se a rigor di lettura Abramo parla espressamente di risorti e non di spettri ma è importante il monito che avrebbero potuto recare; nei fatti comunque le credenze religiose popolari non andavano così per il sottile ed erano durissime da estirpare, anche rispetto a molte pratiche paganeggianti. Per rimanere nella letteratura medievale, come non ricordare la famosa novella di Boccaccio Lisabetta da Messina nella quale il tormentato fantasma dell’amante assassinato appare in sogno alla ragazza per chiedere giustizia della sua memoria?

Ecco dunque che Dante, pellegrino dell’oltretomba, scortato da Virgilio, va, infrangendo con la sua persona ogni regola. Prima di lui, nell’era cristiana, questo beneficio era stato di Cristo, poi di San Brandano e i suoi monaci, ma tutto sommato non è questo il punto: è proprio la figura di Virgilio che getta ombre sinistre. Dante indubbiamente lo osanna senza riserve: è il suo maestro, la sua fidata guida, è colui che “mostrò ciò che potea la lingua nostra”, eppure proprio l’infinita sapienza del poeta latino era tanto ammirata nel Medioevo da sospettarne quasi un che di soprannaturale e al poeta erano tributati poteri da mago… e da negromante; e questo era un pesante contraltare, nonostante la fama luminosa che gli derivava dalla rilettura medievale in chiave cristiana dell’età dell’oro e di inconsapevole profeta dell’imminente incarnazione di Cristo, e nonostante che il fiorentino si fosse affrettato subito nel primo canto, excusatio non petita, a mettergli in bocca giustificativi del suo essere vissuto al tempo degli “dei falsi e bugiardi”. Dante sapeva certamente tutto questo e scelse quale esperto accompagnatore  nell’aldilà un sommo poeta con fama di mago-negromante e, insomma, questo è un pochino inquietante.

I dannati si presentano con un ventaglio di personalità molto diversificato, anche nei confronti dell’insolito visitatore, il che si traduce in diverse reazioni al suo apparire: c’è chi l’accoglie facendo breccia nei sentimenti narrando storie sventurate, chi cerca di nascondersi per la vergogna di essere riconosciuto ospite perpetuo di quel poco ambito luogo, e chi non perde occasione per mettersi in mostra pure laggiù, ribelle fino in fondo, esasperando le proprie peccaminose inclinazioni. Nessuno, a mio avviso, sembra tuttavia tradire paura e così sarà per le anime del Paradiso, ormai avvolte dalla luce di Dio, del quale godono in eterno la vista e la presenza. 

Ma in Purgatorio, è diverso? Forse sì. Il ragionamento di Sermonti, in breve, è semplice e sensato: le anime del Regno mediano e specialmente quelle dell’Antipurgatorio (cioè quelle già arrivate ma non ancora ammesse) sono ancora terribilmente legate alla umanità più o meno recentemente perduta e quindi non del tutto consapevoli della loro nuova condizione; l’apparizione inattesa di Dante, vivo e vegeto, ricorda loro il mondo che hanno lasciato e al quale sono ancora tanto legate. In altre parole è come se avessero chiara la cognizione di quanto hanno perduto ma non ancora quella di ciò che le attende davanti. Umanamente parlando, Dante le immagina come se in fondo in fondo faticassero a comprendere la loro nuova esistenza e ogni successo raggiunto viene rimescolato e confuso dall’apparire di un vivo tra loro, morti.

L’ipotesi è intrigante. A noi, donne e uomini del nostro tempo, forse non fa così effetto, in fin dei conti c’è una buona dose di cinematografia e letteratura che sfuma il confine tra i due mondi con risultati assai destabilizzanti (almeno la prima volte che li si vede o legge) ma che comunque ci ha abituato; sto pensando soprattutto ai due capostipiti: The Sixth Sense, del 1999, regia di M. Night Shyamalan e The Others, del 2001, regia di A. Amenábaral. 

Personalmente non sono sicuro che le anime del Purgatorio siano davvero “spaventate”. Certamente sono quelle che più si avvicinano all’idea tradizionale del fantasma e questo proprio in virtù della loro quasi morbosa curiosità verso Dante e tutto il mondo che rappresenta, per loro perduto di là dal mare. Le anime del Purgatorio per molti versi sono davvero instabili, sbandano al minimo turbamento, faticano a tenere fisso davanti a sé il bersaglio della salvezza che pure dovrebbero sentire pungente come non altro. Dante sarà il loro medium: già nell’Inferno i dannati (pochi a dire il vero) avevano invocato l’aiuto del poeta perché avevano subito un’ingiustizia più grande del loro peccato (Francesca, Pier delle Vigne); ancora di più lo sarà nel Purgatorio, tenendo fede alla promessa più e più volte reiterata di inoltrare ai vivi la richiesta di preci in suffragio dei morti, un piccolo ricatto al quale ricorrerà Virgilio, esperto di anime morte, per facilitare i colloqui del suo assistito.

torna alla sezione dedicata a Dante Alighieri

4 pensieri riguardo “La Divina Commedia e l’aldilà

  1. Un’evoluzione interessante sia del concetto di aldilà che di fantasmi. Mi ha sempre affascinato questo cambiamento avvenuto nel corso dei secoli e come poi sia stato influenzato da diverse culture ed elementi anche antichi. Ottimo articolo!

    Piace a 1 persona

Scrivi una risposta a luisa zambrotta Cancella risposta

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.