Particolarità fonetiche e lessicali nel testo della Divina Commedia

In questo articolo vorrei approfondire alcuni aspetti linguistici della poetica di Dante Alighieri, ovvero le scelte lessicali adottate laddove il Poeta abbia dovuto trattare di boschi e selve. L’argomento ovviamente è stato già abbondantemente studiato e trattato ma proviamo a farne un riassunto e dare qualche contributo in più; e sebbene vada premesso che bosco e selva nel testo dantesco (non solo nella Commedia) assumono significati di volta in volta assai diversi, e soventemente minacciosi e nefasti, si possono facilmente rintracciare tratti comuni. Vediamoli.

Inferno, canto I, la “selva oscura”

Partiamo dall’inizio, dalla selva più famosa di, la “selva oscura”: Inferno, I, vv. 1-9

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte,
che nel pensier rinova la paura!

Tant'è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

Per comprendere esattamente il raffinato lavoro del Poeta è indispensabile una lettura ad alta voce del testo. Dopo la prima terzina, che già introduce il repertorio fonetico proprio con le sibilanti dominanti di “selva oscura”, nella seconda siamo immediatamente avvolti da un continuo frusciare, come se davvero camminassimo in un bosco, calpestando foglie e spezzando rami secchi:

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte,
che nel pensier rinova la paura!

Si osserva facilmente come i nessi consonantici dominanti sono soprattutto composti di s, c, r, t, p, andando a rievocare i suoni duri e stridenti che Dante chiamava le “rime aspre e chiocce”, delle quali aveva già dato prova di ammirevole estro virtuosistico nelle cosiddette Rime petrose, come in Così nel mio parlar vogl’esser aspro. Là, i suoni secchi e le rime difficili erano finalizzate a evidenziare la durezza di cuore della donna, la “bella Petra”, dura come il “diaspro” di cui andava rivestita.

Qua l’inquietudine e lo smarrimento del Poeta Pellegrino sono pienamente resi ed evidenziati già dal primo terzetto di parole in rima della Commedia, oscura, dura, paura, riferite alla selva – suoni cupi, ruvidi e quasi graffianti – incorniciate dalla prima rima nelle parole vita e smarrita che sono, nemmeno a scriverlo, la spina dorsale logica dell’intera Commedia.

Come già detto, la seconda terzina raggiunge il massimo dell’effetto straniante, per poi sciogliersi, almeno un po’, per descrivere il “ben” che vi trovò, catapultandoci indietro nel contesto narrativo.

Con queste premesse non resta che lasciarsi cadere, non diversamente dalle anime laggiù destinate, nel settimo cerchio infernale: nella selva dei suicidi. Un canto che Dante prende molto sul serio.

Inferno, canto XIII, la selva dei suicidi

Dal punto di vista squisitamente letterario, il tredicesimo canto dell’Inferno è uno dei più riusciti dell’intera Commedia (per approfondimenti, vedi Dalla “selva oscura” alla selva dei suicidi nella Divina Commedia di Dante Alighieri. Ecco l’inizio:

Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.

Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.

Non appena i due poeti si addentrano nella nuova e strana boscaglia subito li avvolgono i suoni un bizzarri e misteriosi dei luoghi inospitali e quindi poco usuali: e noi sentiamo di nuovo i fruscii, scricchiolii, gli schianti tipici di chi calpesta il suolo di una foresta.

In più, qualsiasi tentativo immaginare un locus amoenus che dia sicurezza è subito castrato dalle recisive antitesi dantesche: non si vede alcunché di verde, ma solo colori foschi, cupi, non rami dritti e curati ma contorti e intrecciati; non si scorgono frutti ma spine velenose. Dante è confuso, stordito, spaventato dai lamenti che sente echeggiare tra quei tronchi minacciosi e ne immagina la provenienza da anime nascoste tra gli alberi. Non è così: la realtà è ben peggiore.

Ad ogni modo, rimanendo nel focus di questo articolo, superato il labirintico poliptoto “Cred’io ch’ei credette ch’io credesse”, ci troviamo di fronte a un’abile trasmutazione sensoriale. Dante immagina che questi lamenti uscissero da dietro quei “bronchi” ovvero da quegli alberi contorti e spogli, del tutto simili alla parte anatomica  scarnificata. Questo scivolamento semantico è forse meno sorprendente ai Toscani, abituati dall’uso comune parlato a questa doppia valenza, ma nel caso specifico, be’, assume ben altro significato, giacché proprio dentro quegli alberi “respirano”, si fa per dire, le anime dannate dei suicidi. 

La terzina 25-27 continua quindi a inondarci di suoni sibilanti e velari, in crescendo nella successiva (vv. 28-30):

Però disse ’l Maestro: “Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’hai si faran tutti monchi.”

Conclusione spietatamente sarcastica per l’inconsapevole Dante che troncando un ramo si appressa a spezzare un vero e proprio arto dell’anima legnificata di Pier delle Vigne. 

E difatti, non appena l’atto è compiuto, l’anima si ribella, per quanto può (vv. 33-39):

e ’l tronco suo gridò: "Perché mi schiante?"

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: "Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi".

Schiante, scerpi, spirto, sterpi, serpi evocano suoni improvvisi e violenti che ancora appartengono allo stesso ambito semantico e alla medesima tavolozza sonora, e partecipano al formidabile e perfetto apparato retorico che Dante sfoggia per suscitare tutto il nostro raccapriccio per la scena e al tempo stesso rendercene fatalmente partecipi.

Dopo aver ascoltato le scuse e le giustificazioni di Virgilio, necessarie a motivare l’inutile crudeltà perpetrata a suo danno, l’anima prende la parola. Dopo poche frasi (quelle che a noi interessano, in realtà) l’albero, pur parafrasandola, rivela la sua vera identità: si tratta di Pier delle Vigne, segretario personale dell’imperatore Federico II, morto suicida per sfuggire alla false accuse che i cortigiani per invidia levarono contro di lui.

Ma ecco cosa dice in apertura:

E ’l tronco: "Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’ïo un poco a ragionar m’inveschi. (vv. 55-57)

L’anima del nobile Piero sembra a poco a poco spogliarsi della sua legnosa natura e Dante, con maestria, sfuma la sua retorica dura silvestre verso le più alte versificazioni della Commedia, adeguate alla levatura culturale del personaggio. 

Forse non saranno sfuggiti al lettore gli ultimi due lacci che Dante scioglie per liberare la sua poetica dalla sua precedente terminologia e timbrica selvatica, ovvero i verbi adeschi e inveschi.

L’ambito semantico è ancora quello boschivo e in particolare la pratica della “uccellagione”, ovvero la caccia ai volatili con la pania (o paina) altrimenti detta caccia col vischio. Con questa tecnica si disponevano nell’intrico dei rami dei legnetti ricoperti del succo appiccicoso spremuto dai frutti del vischio, tanto appiccicoso che i piccoli uccelli, toccandolo, rimanevano immobilizzati, invischiati appunto, e quanto più si dibattevano nel tentativo di liberarsi tanto più si impiastricciavano, rendendo impossibile il volo. Al termine della giornata era sufficiente passare nell’area attrezzata e raccogliere le prede.

Dopo una tragica digressione biografica, l’anima di Piero racconta cosa accade all’anima suicida post mortem e come essa cada a caso nella foresta del settimo cerchio, lanciata là immediatamente dopo la confessione davanti Minosse. Dove cade germoglia e poi il tenero virgulto si indurisce e di pari passo tornano i suoni ormai noti:

Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.

Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.

Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.

Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.

Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta. (vv. 94-108)

Merita forse mettere bene in luce la terribile forza del verbo divellere:

Quando l’anima bestiale si separa dal corpo dal quale essa stessa s’è strappata via, estirpata… quanta violenza! la nuova pianticella “Surge in vermena e in pianta silvestra” e poi in rima, “finestra”,  e infine, in consonanza mesta e molesta concludono la tremenda manifestazione della giustizia divina.

In realtà alla conclusione del canto mancano ancora due episodi ovvero il terribile scempio compiuto da due scialacquatori ai danni di un cespuglio e l’ultimo, misterioso episodio del suicida fiorentino. A noi interessa il primo e così, i due nuovi protagonisti entrano in scena:

Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.

Anche in questo caso il Poeta mantiene invariata la rotta, proseguendo con lo stesso repertorio fonetico-linguistico.

Purgatorio, canto XXVIII, il Paradiso Terrestre

Punto fermo della poetica dantesca è continua la ricerca di coincidenza tra gli argomenti, la “materia”, della sua opera e le risorse stilistiche più congeniali alla sua rappresentazione. I casi visti finora, connotati di suoni graffianti e stridenti, aspri e sgradevoli, col loro grande realismo comunicano l’inospitalità delle foreste infernali.

Il primo canto del Purgatorio esordisce con una celebre invocazione alle Muse perché l’ingegno umano da solo non gli basterà a spingerlo tanto al largo (esatto, di nuovo la metafora della navigazione verso nuove e migliori acque) quanto sarà necessario spingersi per descrivere il proseguimento del suo pellegrinaggio sempre più prossimo al Paradiso.

Ebbene, venendo a noi, dopo aver incontrato altri luoghi ameni sulle pendici della montagna del Purgatorio, giunto finalmente sulla cima, Dante si appresta a entrare nel Paradiso terrestre, il luogo perfetto che fu la temporanea dimora terrena di Adamo ed Eva prima della caduta.

Il canto XXVIII si apre senza indugio con la descrizione del luogo, un fittissimo bosco. Leggiamo:

Vago già di cercar dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva,
ch’a li occhi temperava il novo giorno,

sanza più aspettar, lasciai la riva,
prendendo la campagna lento lento
su per lo suol che d’ogne parte auliva.

Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;

per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ombra gitta il santo monte;

non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte;

ma con piena letizia l’ore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime,

tal qual di ramo in ramo si raccoglie
per la pineta in su ’l lito di Chiassi,
quand’Ëolo scilocco fuor discioglie. (Purgatorio, XXVIII, vv. 1-21)

Io già desideravo cercare dentro e tutto intorno alla divina foresta, fitta e viva che mi attenuava ai miei occhi la luce nel nuovo giorno, e senza attendere ancora lasciai il margine, inoltrandomi nella campagna a passi lenti, andando su con l’erba che profumava da ogni parte. Un’aura dolce, che non portava in sé alcun mutamento, mi toccava la fronte non diversamente che un  venticello leggero; a causa sua, le fronde, tremolando, tutte assieme si piegavano verso il lato dove il santo monte proietta la sua prima ombra, non così tanto piegate però da impedire agli uccellini il loro operato consueto; ma con letizia accoglievano le prime ore del giorno cantando tra le foglie le quali, a loro volta, rispondevano in rima con un mormorio (bordone), simile a quello che accade, di ramo in ramo, nella pineta sul lido di Classe, quando Eolo libera il vento di scirocco.

Alla luce di quanto premesso in apertura di quest’ultimo paragrafo, è evidente che la descrizione di questo antico e sacro bosco doveva essere ben diversa dalle inquiete foreste infernali. La descrizione, lo si sarà notato, procede con grande pacatezza, i versi hanno una cadenza da nobile adagio, i suoni secchi e improvvisi sono banditi.

Per Dante, la più tangibile manifestazione dell’opera di Dio è la bellezza e in particolare la bellezza intesa come armonia e quindi, potremmo svolgere un’analisi punto punto, rispetto all’agghiacciante selva dei suicidi i frutti velenosi sono diventati erba profumata, i rami nodosi e intricati, rami distesi che si muovono armoniosamente, il terribile verso delle arpie, il canto degli uccelli e infine, il luttuoso sottofondo di lamenti qua è diventato un “bordone”, ovvero un suono profondo e delicato che dà sostegno all’accompagnamento (gergo tecnico musicale che indicava, come ancora oggi, il registro dell’organo più basso e morbido).

Una trasformazione di notevole interesse che dà moltissimi spunti di riflessione ma che dirigono in direzioni diverse il nostro topic.

Un ultimissimo appunto: Dante vuole trasmetterci tanta pace, armonia e rotondità di suoni che, nell’ultima terzina, dopo aver abbondato di “r” e “s” (“tal qual di ramo in ramo si raccoglie”, v. 19) si sente in dovere di correggere il 21 con il pararotacismo di scirocco in scilocco, in modo da diventare perfettamente e dolcemente allitterante con Eolo e discioglie.

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3 pensieri riguardo “I suoni della selva dantesca

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