Vanità
(Vallone, il 19 agosto 1917)
D’improvviso
è alto
sulle macerie
il limpido
stupore
dell’immensitàE l’uomo
curvato
sull’acqua
sorpresa
dal sole
si rinviene
un’ombraCullata e
piano
franta
Nell’agosto del 1917 Giuseppe Ungaretti scrisse tre brevi poesie dalla località Vallone, un’ampia dolina carsica nei pressi di Doberdò (GO): Sogno e Rose in fiamme il 17 agosto e, due giorni dopo, Vanità. Erano per lui gli ultimi mesi sul Carso: dopo la disfatta di Caporetto il suo reggimento sarebbe stato trasferito sul fronte occidentale, nel bosco di Courton, sulle colline nei pressi della città di Reims.
Raccolta ne L’Allegria, la poesia Vanità tocca uno dei momenti più alti del simbolismo ungarettiano, e sia per forma che per contenuto costituisce probabilmente una delle sintesi migliori di tutta la sua poetica giovanile.
La versificazione è connotata dalla consueta concisione espressiva, tipica di questa fase poetica, volta all’essenzialità senza tuttavia rinunciare a profondità di contenuto mentre il nucleo tematico della lirica, enunciato dal titolo, ruota attorno al concetto di vanità esistenziale, intesa come consapevolezza della precarietà dell’esistenza umana. L’esperienza della guerra ha mostrato in tutta la sua brutale chiarezza la fragilità dell’uomo di fronte alle forze distruttive messe in atto e la condizione del soldato diventa metafora universale della precarietà umana, caratterizzata dall’instabilità e dalla costante minaccia di annientamento.
La vanità non assume qui connotazioni moralistiche ma rappresenta piuttosto la presa di coscienza dell’inconsistenza dell’essere umano nell’universo. Così enunciato, il concetto appare relativamente semplice ma il processo del suo conseguimento e soprattutto la sua rielaborazione non lo sono affatto. Per elaborare la sua composizione, il poeta attinge a un bagaglio di immagini per certi aspetti consueto e di già sperimentato successo, ovvero il profondissimo radicamento sensoriale negli elementi costitutivi di quel preciso paesaggio: luce, ombra, acqua, terra e pietra. Plasmati in vario modo nelle sue poesie, questi plasmano a loro volta lui stesso, in una sorta di “giro immortale”, come concluderà nella poesia Sereno.
Prima strofa: la luce e l’immensità
“D’improvviso”, esordisce l’incipit della poesia: una sorta di apertura in media res simbolico/esistenziale. Le ore precedenti di quella giornata non contano: in quel preciso momento, un bagno di luce segna il nuovo inizio. L’immediatezza folgorante dell’immagine rimanda la memoria a Mattina: “M’illumino \ d’immenso”. Là, è la sublimazione più assoluta, la trasfigurazione dell’universo stesso; qua, l’abbacinante erompere del sole appare appena poco più meditato, meno pervasivo e il contesto paesaggistico ha ancora un significato; nella poesia Mattina, tanta è la sopraffazione operata dall’incontenibile luce che la manifestazione di ogni altro sentimento rimane muta e incapace mentre in Vanità l’animo si riempie limpido stupore.
Le macerie, eredità della celebre San Martino del Carso, scritta poco meno di un anno prima (Valloncello dell’Albero Isolato, 27 agosto 1916), “Di queste case \ non è rimasto \ che qualche \ brandello di muro”, sembrano dissolversi e sfocare, la cruenta sporcizia infetta della guerra viene annullata nel chiarore limpido della luce.
E proprio l’aggettivo “limpido”, verso la fine della strofa, è un vero e proprio centro gravitazionale, esteso a qualificare l’intero universo e la sua “immensità”. Ungaretti si confronta costantemente con l’incommensurabile universo, rispetto al quale rivendica l’appartenenza in qualità di una sua “docile fibra” (I fiumi).
Molto si potrebbe scrivere anche sul sostantivo “stupore”. Il suo utilizzo, per il poeta\soldato, rappresenta l’occasione di una profondissima quanto inattesa presa di coscienza rispetto alla propria esistenza, sono le circostanze offerte dalla Natura o dal destino nelle quali la sua sensibilità si eleva a una condizione superiore. Il richiamo alla poetica del Fanciullino di Pascoli è per molti versi evidente ma bisogna tenere ben presente un’importantissima differenza: negli scritti di Ungaretti è del tutto assente il processo di regressione necessario per tornare alla dimensione e alla percezione fanciullesca pascoliana del mondo; al contrario, il grande sforzo del poeta è vivere questi brevi momenti rigorosamente nel presente e nella pienezza, per quanto spesso insufficiente, della propria esperienza sensibile. Casomai, guardando al passato, in Ungaretti si deve recuperare la dimensione del ricordo, inteso come anche come doloroso fardello o quantomeno bagaglio indispensabile della vita di ciascuno.
Seconda strofa: l’uomo… e la luce
Non esiste poesia ungarettiana che rigetti la presenza dell’uomo, se stesso o altri; Vanità non fa eccezione. E come altri o se stesso, nell’Allegria il più delle volte gli uomini sono presentati come curvi, rannicchiati, appoggiati, aggrappati… Nessuna posa e nessun atteggiamento appare naturale: nella poesia In dormiveglia, un esempio tra molti possibili, sono paragonati a lumache striscianti, riparati in un fragile guscio; forse solo nella poesia I fiumi Ungaretti può davvero distendere le proprie membra rattrappite dalla guerra, lasciarsi lavare e levigare dal fiume, accoccolarsi al sole.
Per l’appunto, nella seconda strofa, in Vanità torna il trinomio uomo-acqua-luce, secondo una dinamica già sperimentata con successo proprio ne I fiumi. In entrambi i casi (l’Isonzo di là, forse lo stesso lago di Doberdò qua) il contatto con l’acqua costituisce un vero e proprio portale dimensionale verso la consapevolezza e un livello di percezione superiore; per meglio dire, la superficie dell’acqua sembra divenire una sorta di filtro attraversando il quale ne veniamo in qualche modo purificati e pronti per una nuova, sebbene talvolta ancora confusa, visione del mondo.
In questo caso, l’onda di luce dilagante da sopra i crinali circostanti mette a nudo un uomo curvato sull’acqua il quale, colto impreparato da quel subitaneo cambiamento, “si rinviene \ un’ombra”. Stilisticamente, Ungaretti si concede l’utilizzo dell’ipallage, poiché nel testo è l’acqua a esser definita “sorpresa” mentre ovviamente l’attributo va riferito all’uomo. In questo caso la figura retorica, con il suo trasferimento di significato, è funzionale alle sensazione di completo straniamento del momento.
E l’uomo “si rinviene \ un’ombra”. Come già osservato, questo momento epifanico segna un punto d’inizio, è una semiretta che riparte da quel luogo e in quel preciso momento in una direzione tutta da esplorare. La nostra curiosità esegetica ci spingerebbe a chiedersi chi sia questa figura, perché e da quanto fosse lì, che cosa stesse facendo, ingobbito sul pelo dell’acqua. Ma, al di là di ogni possibile ipotesi, non ci è dato saperlo e nemmeno è importante, perché in effetti non ha più alcun valore sostanziale. Un nuovo corso è iniziato.
Il riscoprirsi “un’ombra”, ormai verso la fine del componimento, dà finalmente senso compiuto al titolo, e viceversa, e stabilisce nuovi significati per la poesia stessa. Vanità. L’effimera inconsistenza della natura umana improvvisamente messa a nudo, ridefinisce i confini simbolici dei versi. Le stesse macerie del v. 3, che per data e luogo avevamo frettolosamente relegato agli ovvi effetti della guerra, appaiono più sfumate nella loro ragion d’essere. In fin dei conti, vanitas vanitatum, tutto è vanità, e dunque la stessa loro natura appare meno certa poiché in fin dei conti tutto è comunque transitorio, tutto passa, tutto si corrompe e si trasforma. Ombra e macerie sono due facce della stessa, fragile medaglia. Oltre a questo, personalmente, non credo si debba attribuire alla totale vanità delle cose un valore così distruttivo e vanificatore. In fine dei conti, ogni passo verso la consapevolezza è un passo verso la verità.
Terza strofa: l’ombra
La terza e ultima strofa sintatticamente è un poderoso enjambement strofico, il cui soggetto è l’ombra dell’uomo della strofa precedente.
L’ombra è “cullata”, un movimento prodotto dall’acqua che intrinsecamente richiama la maternità e protezione, ci ritaglia uno spazio domestico, famigliare e forse intimo che vorremmo non finisse ma; ma non sarà così, ci dice il titolo. E allora la stessa ombra, da quella stessa acqua è “piano \ franta”.
La conclusione è un vero e proprio trionfo della parola, secondo schemi analogici dei quali solo Ungaretti è stato capace. Il significato di questo nesso semantico è tanto a portata di mano quanto sfuggente; è un paradosso, è un ossimoro. Come interpretare innanzitutto grammaticalmente la parola “piano”? Sostantivo o avverbio? Difficile scegliere. Tendo al sostantivo, perché dà senso alla bidimensionalità dell’ombra proiettata sul piano dell’acqua. Franta è participio passato del verbo frangere, rompere, qui con valore di aggettivo. L’immagine evocata è chiarissima, l’ombra è restituita frammentata dalle increspature del lago, il suo significato simbolico forse è meno immediato. La Vanità continua a essere direttamente o indirettamente la chiave per comprendere la nostra esistenza, la grande rivelazione di un istante fa è già irraggiungibile, nemmeno il tempo di focalizzare lo sguardo e si è frantumata e dispersa in mille mobili, liquide schegge.
Alcuni anni dopo, Eugenio Montale, nella poesia Forse un mattino andando in un’aria di vetro (da Ossi di seppia), descriverà un’esperienza simile: la rivelazione di un istante sfuggita al controllo, rispetto alla quale la Natura si affannerà subito a ricomporre “l’inganno consueto. \ Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto \ tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.”
Concludendo, forse la vera rivelazione non è nella luce improvvisa e neppure nell’ombra che si dissolve, ma esattamente in quel nel breve istante in cui crediamo di aver colto un senso. Ungaretti sembra dirci che è proprio quell’attimo, colto e già fuggito, a costituire la nostra fragile eternità.
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bellissimo Articolo
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Ti ringrazio, sei molto gentile.
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