Introduzione
Il presente contributo si propone di approfondire le tematiche già esposte nel precedente studio intitolato Dante e la continua ricerca della retta via, con l’intento di chiarificare con maggiore precisione il nucleo concettuale della ricerca: l’importanza della consapevolezza di sé e della cognizione delle proprie limitazioni nell’esperienza poetica e spirituale di Dante Alighieri.
La selva oscura: metafora e significati
È prassi ermeneutica consolidata interpretare la celebre “selva oscura” come allegoria delle insidiose trame del peccato nelle quali il Poeta si smarrisce. Se da un lato la percezione del pericolo si manifesta con nitidezza espressiva — “Tant’è amara che poco è più morte” (Inf., I, 7) — dall’altro è possibile rilevare una fiducia ingiustificata nelle proprie capacità umane. Infatti, non appena intravede la possibilità di uscire dal fitto bosco, Dante esprime prematuramente un senso di sollievo, paragonandosi al naufrago che, raggiunta la terraferma, volge lo sguardo alle acque perigliose:
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva. (Inf., I, 22-27)
Tale speranza mal riposta viene rapidamente spenta dalla prova delle tre fiere, in particolare dall’incontro con l’irriducibile lupa. L’avventura verso la cima del “dilettoso monte”, dalla quale Dante aveva ammirato i raggi del primo sole, ha quindi una rapida conclusione, fondata com’era su una malriposta fiducia nelle capacità umane. Le vicende dimostreranno al Poeta l’inadeguatezza delle proprie forze, ponendolo drammaticamente di fronte al pericolo reale e mortale rappresentato dalle tre fiere, al di là del loro evidente significato allegorico. Respinto dalla lupa, Dante retrocede rovinosamente al punto di partenza.
Il motivo della caduta nell’opera dantesca
Questo rappresenta solo il primo caso di caduta tra le molte che permeano la Commedia, spesso in relazione a precedenti e sconsiderati tentativi di elevarsi oltre i propri limiti. Non è casuale quindi che molti di questi fallimenti, tanto materiali quanto allegorici, siano correlati a episodi di superbia o arroganza punita, come testimonia la lunga sequenza di immagini scolpite a monito lungo il percorso della cornice dei Superbi, nel XII canto del Purgatorio.
Il fallimento narrato, espone nuovamente Dante ai pericoli della selva oscura, dai quali lo salverà l’inatteso incontro con Virgilio. Il nuovo itinerario, preannuncia l’antico poeta, sarà arduo ma necessario (“A te convien tenere altro viaggio”, Inf., I, 91), in effetti l’unico percorribile.
La progressione spirituale e la guida virgiliana
Il progredire attraverso le cantiche dell’Inferno, del Purgatorio e infine del Paradiso, culminante nella visione suprema della Trinità, costituisce prova tangibile del successo della missione salvifica di cui Dante è stato destinatario. Tuttavia, risulta proficuo soffermarsi su alcune tappe significative di questo itinerario.
La stessa ascesa della montagna del Purgatorio, ovvero il percorso già libero dalla follia del peccato, evidenzia la fragilità e al contempo l’essenziale importanza del sapere umano. I due poeti raggiungono la vetta, ma Virgilio, pagano non battezzato, non è ammesso all’ultima fase del viaggio, ossia ai rituali di purificazione finale che precedono l’ascensione al Paradiso. La prova conclusiva paralizza Dante: attraversare un muro di fiamme. Virgilio, tuttavia, trova le parole adeguate: “or vedi, figlio:/ tra Beatrice e te è questo muro” (Purg. XXVII, vv. 35-36) e la sola menzione della donna amata costituisce per il Pellegrino motivazione sufficiente per trovare il coraggio necessario ad entrare nelle fiamme. L’attraversamento si rivela tutt’altro che agevole, tanto che Dante scrive che per rinfrescarsi si sarebbe gettato “in un bogliente vetro”, ma l’immagine degli occhi di Beatrice che lo attendono lo accompagna fino all’uscita, nel Paradiso terrestre. Qui Virgilio pronuncia le sue parole conclusive:
in me ficcò Virgilio li occhi suoi,
e disse: “Il temporal foco e l’etterno
veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte
dov’io per me più oltre non discerno.
Tratto t’ ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.
[…]
Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio”. (Purg. XXVII, 126-130, 139-142)
Il brano può essere così parafrasato: fissandomi negli occhi, Virgilio disse: “figlio, hai conosciuto il fuoco eterno dell’Inferno e quello transitorio del Purgatorio, e sei giunto al luogo dove io non posso vedere oltre. Ti ho condotto fin qui con la mia ragione e la mia sapienza; ma ormai, assumi come guida il tuo stesso desiderio; sei ormai fuori delle vie aspre e difficili […] Non attendere più un mio cenno; il tuo arbitrio è ora libero e retto, e sarebbe errore non agire secondo il suo volere: per questo io ti rendo sovrano di te stesso”.
L’autorità di Virgilio e la preparazione per il Paradiso
Ma su quali basi si fonda l’esortazione di Virgilio? Quali conferme poteva mai possedere il poeta latino dell’effettiva purificazione di Dante oltre quelle, oggettive, dell’essere giunto fino a quel punto? Ugualmente sorprendente appare l’ultimo verso, secondo il quale sembrerebbe che Virgilio si arroghi persino il diritto di incoronare Dante signore di se stesso, ritenendolo pronto per l’ultimo passaggio. In realtà non vi è né presunzione né usurpazione nelle parole del Maestro: Dante appare ancora esitante e il suo retaggio di umana fragilità lo trattiene ancora al di qua dei timori terreni e solo con l’intervento di Beatrice, severo ma salvifico, diverrà davvero pronto per il Paradiso.
La conversione definitiva e il nuovo percorso
Risalendo di cielo in cielo, nel canto XXVI del Paradiso, il Poeta dialoga con San Giovanni Evangelista, il quale lo sottopone ad un esame sulla virtù teologale della Carità:
Però ricominciai: «Tutti quei morsi
che posson far lo cor volgere a Dio,
a la mia caritate son concorsi:
ché l'essere del mondo e l'esser mio,
la morte ch'el sostenne perch' io viva,
e quel che spera ogne fedel com' io,
con la predetta conoscenza viva,
tratto m'hanno del mar de l'amor torto,
e del diritto m'han posto a la riva. (Par. XXVI, 55-63)
Ormai ogni ombra è dissipata e il Poeta percepisce tutto con sufficiente chiarezza: l’intera sua esperienza personale e l’esperienza universale del mondo lo hanno condotto a quel momento cruciale, affinché possa comprendere pienamente quale sia la direzione corretta da seguire da lì innanzi. Ciò che Giovanni gli domanda è se ogni fibra del suo essere sia ora interamente rivolta all’amore per Dio. In risposta, è significativo osservare come Dante utilizzi la medesima metafora del mare periglioso e dell’approdo già impiegata all’inizio del poema, ma in una modalità completamente rinnovata. La grazia incommensurabile ricevuta attraverso questo viaggio ante mortem ha permesso a Dante di ravvedersi e liberarsi dal vasto mare “de l’amor torto”, ovvero delle passioni deviate, per approdare al mare nuovo e ancora inesplorato dell’amore “diritto”.
Conclusione
I versi 62-63 del canto XXVI del Paradiso rivestono eccezionale rilevanza e bellezza poetica. Un Dante rigenerato non deve più fuggire da se stesso e arrancare fuori dal “pelago” minaccioso. Adesso è posto sulla riva di un nuovo mare, un’immagine dal significato che gli è ben chiaro, e lui rimane fedele alla propria essenza: è destino e vocazione dell’uomo, certamente sua propria, guardare e procedere in avanti, come aveva declamato Ulisse esortando i suoi marinai: “Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza.” (Inf. XXVI, vv. 118-120). Le motivazioni di Ulisse erano confuse e distorte, non dissimili da quelle del Dante di poco tempo prima, spaventato e vulnerabile. Ora, la consapevolezza di sé risulta arricchita da una fede salda, unica via di Salvezza insieme alle opere, motivo per cui il poeta insiste sul valore della propria esperienza. Nel grandioso trittico della Commedia, Dante stesso ha voluto sottolineare questa simmetrica corrispondenza tra una rotta che conduce alla rovina e una alla salvezza in entrambi i casi nel ventiseiesimo canto. Perché il ventisei? Secondo la Kabbalah il numero 26 ha un’importanza mistica grandissima poiché il numero si rifà al tetragramma del nome di Dio “YHWH”. In realtà è poco probabile che Dante avesse avuto accesso al testo ebraico ma era certamente più che sensile alla numerologia e il 26 potremmo leggerlo come la scomposizione del numero 8 (2+6) e il numero 8 nella mistica cristiana era il numero della resurrezione, l’ottavo giorno. Molto spesso, e a ragione, si legge come Ulisse sia un vero e proprio alter ego di Dante stesso ma proprio davanti all’abisso di un mare minaccioso i due destini si sono separati.
Nel verso conclusivo della Commedia, a coronamento del capolavoro universale della poesia di tutti i tempi, troviamo la chiave di tutto. La “mirabile visione” appena intravista ne La vita nuova raggiunge il suo compimento proprio nell’amore: l’intuizione giovanile trova conferma con, attraverso e poi oltre Beatrice, e risplende luminosa nell’unica forza capace di vincere ogni ostacolo, “l’amor che muove il sole e l’altre stelle” (Par. XXXIII, v. 145).
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wow vorrei leggere la divina commedia ! La tua recensione è interessante.
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Benvenuta! Sarà un mondo intero da scoprire 😊
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