Nel terzo canto dell’Inferno della Divina Commedia, Dante varca la soglia dell’Oltretomba. Il suo viaggio inizia così dagli abissi del peccato per poi risalire fisicamente e allegoricamente al Purgatorio e infine, ascendendo attraverso i cieli, fino al cospetto della Trinità.

Non appena al di là dell’oscura porta del primo regno, viene travolto in un frastuono che stordisce, disorienta, atterrisce; è investito da un impetuoso muro di grida, voci sguaiate in tutte le lingue conosciute che imprecano e piangono. Poi, a poco a poco, l’agghiacciante visione prende maggior nitidezza: una miriade di anime, da sbalordirsi che Morte ne avesse create tante, e che si muovono in cerchio. Sono i famigerati ignavi ovvero coloro che condussero una vita tanto piatta e vuota da rendere impossibile ogni giudizio nei loro confronti.
Virgilio invita Dante a non perder tempo con loro e liquida la turba con la celebre frase “non ragioniam di lor, ma guarda e passa” (Inf. III, 51) e dunque l’attenzione del poeta si volge poi alla scena successiva: sulla riva d’un gran fiume scorge una nuova moltitudine nell’atteggiamento di chi è in attesa. Sono tutte le anime di coloro che attendono il metodico andirivieni di Caronte da una sponda all’altra dell’Acheronte. Al suo arrivo, il traghettatore si annuncia con “parole crude”:

gridando “Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo  e ’n gelo (Inf. III, 84-87)

A quella sentenza inappellabile le anime che erano sulla riva “cangiar colore e dibattero i denti”. Be’, più comprensibile. Il momento è giunto, adesso non si torna più indietro, ogni indugio è rotto e la giustizia divina non avrà flessioni: adesso si va all’Inferno, “ne le tenebre etterne” e nei tormenti eterni.

Ciononostante, dopo aver bestemmiato “Dio, lor parenti” e tutta l’umana specie, le anime danante: 

Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme. (Inf. III, 106-108)

Ed eccoci alla parte interessante, oggetto di questo approfondimento. Dante è appena entrato nel Doloroso regno, è ancora confuso da quanto ha visto e udito, ma siamo appena all’inizio, l’Inferno vero e proprio non è ancora iniziato e il pellegrino deve decisamente ancora farsi una buona scorza per affrontare quanto gli si parerà davanti.

Già l’immagine dei dannati in lacrime, accalcati assieme nell’ultimo tentativo di procastinare l’inevitabile un pochino ci induce in commozione, pur sapendo che l’opera di Dio si muove secondo giustizia. Ma noi siamo umani e ci sentiamo in qualche modo emotivamente coinvolti, e se non solidali quantomeno partecipi, compassionevoli potremmo dire, nel senso più etimologico del termine. Nella scena ancora successiva si assiste al balzare delle anime sul traghetto per dirigersi verso la notte eterna, sotto la minaccia per chi si attarda dei feroci sproni del remo di Caronte.

In risposta a quanto vede, e arriviamo al punto interessante, Dante scrive:

Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a terra tutte le sue spoglie,
similmente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo. (vv. 112-117)

Parafrasando: così come d’autunno le foglie cadono una dopo l’altra finché il ramo non vede a terra tutte le sue spoglie, così il mal seme di Adamo (i dannati) di lancia dalla riva uno dopo l’altro a un semplice cenno, come uccelli che rispondono al richiamo.

A me interessa la prima terzina. È nota l’ascendenza virgiliana (Eneide, VI, 305-312) ma credo che il significato della similitudine sia qui molto più meditato e profondo, piuttosto che un semplice sfoggio di erudizione e omaggio per il suo indiscusso maestro e guida. 

La prima riflessione riguarda la scelta del registro che Dante adotta: la dolcezza della doppia similitudine, venata da un leggero pizzico di malinconia, è certamente inadatta al luogo, tanto che immediatamente Virgilio da buon maestro interviene e corregge l’inopportuna indulgenza di Dante, specificando di nuovo che tutto ruota sui cardini dell’assoluta giustizia, della quale gli stessi dannati sono pienamente consapevoli; dunque non può esserci pietà. A dire il vero l’aveva già avvisato un paio di volte, prima di entrare. Ma come anticipavo sopra, il poeta fiorentino non ha ancora abbastanza pelo sullo stomaco, si lascia commuovere in profondità da ciò che vede, fino a svenire per le emozioni; è ben lontano il Dante che in fondo all’Inferno tratterà in malo modo l’anima ghiacciata di un traditore (Bocca degli Abati) fino a strappargli i capelli a ciocche perché gli riveli il nome. E dunque si lascia andare a questa delicata immagine delle foglie che in autunno cadono dagli alberi.

Seconda riflessione. Credo che ognuno di noi, nel visualizzare mentalmente le foglie che cadono in autunno, immagini una prospettiva umana, dal basso verso l’alto l’alto. Dante invece ci prende subito in contropiede poiché la sua prospettiva è invertita dal punto di vista dell’albero, il quale assiste impotente alla caduta delle sue spoglie e le guarda, laggiù a terra, lontane, perdute. È indubbiamente una visione di tristezza infinita. 

Chissà? Forse aveva una sensibilità particolare per gli alberi? Immagino di sì, ne è una prova il canto XIII dell’Inferno ambientato nella ben più tenebrosa selva dei suicidi (canto XIII), caratterizzata da alberi sofferenti. Non è certamente un caso che lì Dante inventi tre situazioni in cui si spezzano rami e foglie, e si provoca lancinante dolore. La prima volta è il crudele esperimento ordito da Virgilio per mano di un inconsapevole Dante che tronca un ramo ai danni di Pier delle Vigne, il secondo, più vicino al nostro albero che osserva le sue foglie perdute, è il tragico esito del passaggio dello scialacquatore Iacopo da Sant’Andrea, che va a schiantarsi sopra un giovane cespuglio, riducendolo a brandelli. Ciò che rimane dell’anonima pianta, gemente, è un pianto lamentoso rivolto ai due poeti:

Ed elli a noi: “O anime che giuste
siete venute a veder lo strazio disonesto
c’ha le mie fronde sì da me disgiunte,
raccoglietele al piè del tristo cesto.” (Inf. XIII, 139-142) 

E poco prima ci aveva narrato di come le terribili arpie aggiungessero sofferenze su sofferenze strappando le foglie dagli alberi (vv. 101-102)

È evidente dunque che immaginarsi parti di alberi in vario modo separate dal tronco evocavano nel poeta una particolare e toccante percezione dolorosa.

Tornando alla similitudine del canto terzo, c’è forse un significato più profondo da analizzare. Mi domando se la desolante prospettiva dall’alto non evochi la solitudine di Dio, che assiste all’irrimediabile abbandono nel peccato dei suoi figli, caduti, a tutti gli effetti. Niente potrà riportare sul ramo le foglie ormai a terra, così come niente potrà salvare a quel punto le anime destinate a varcare la “trista riviera d’Acheronte”. 

In questo scenario i versi di Dante divengono certamente ben altro che il prodotto di molle sentimentalismo, ma piuttosto suonano tragicamente come l’impotente pianto di Dio Padre che assiste impotente alla pardita di una moltitudine dei suoi figli.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.