Introduzione
L’Italia ha una tradizione pionieristica nell’ambito della produzione di energia idroelettrica, e naturalmente gli studi geologici e ingegneristici si sono sviluppati di pari passo, consentendo di colonizzare un elevatissimo numero di vallate alpine e appenniniche con poderose dighe allo scopo di creare i bacini idrici necessari a garantire il flusso destinato alle turbine delle centrali di produzione a valle.
Ma questa storia di successi e di progresso è purtroppo costellata anche da catastrofi che hanno comportato un costo salatissimo, in termini di vittime e ingentissimi danni per il paesaggio e la collettività. La frana nel bacino della diga del Vajont e l’alluvione che ne seguì il 9 ottobre 1963 è l’evento il più tristemente noto, ma ve ne sono altri, forse meno conosciuti, gli effetti dei quali sono stati fortunatamente più limitati ma non per questo meno distruttivi per le comunità che ne furono investite.
Genericamente parlando, le cause ultime e immediate sono quasi sempre state in relazione a eventi di natura meteorologica del tutto eccezionali, ma le indagini che hanno cercato di fare luce sulle catastrofi, hanno poi portato in superficie verità fatte di grossolani errori progettuali, imperizia esecutiva o approssimazione negli studi preliminari.
In questo e negli articoli che seguiranno, vedremo alcuni di questi eventi relativamente meno noti.
La diga
La diga del Gleno fu costruita a sbarramento del torrente omonimo e dei suoi affluenti, in Val di Scalve (BG), con l’intenzione di inondare lo splendido Pian del Gleno; i lavori terminarono ai primi di ottobre del 1923 e il 1° dicembre dello stesso anno, a causa di errori di progettazione e soprattutto di costruzione, la diga crollò, provocando un’alluvione distruttiva che costò la vita a oltre 350 persone.

Come talvolta accade nelle grandi opere, il progetto finale fu l’elaborazione di una serie di aggiustamenti successivi e modifiche del progetto iniziale; ad ogni modo, i lavori iniziarono nel 1916, sbarrando la forra del torrente Gleno con una diga a gravità, costruita fino all’altezza necessaria per raggiungere la quota della valle retrostante e aperta al centro con la galleria di scarico principale. Al di sopra, per creare l’invaso vero e proprio, il progetto della diga a gravità fu abbandonato e si procedette alla costruzione di una monumentale diga ad archi multipli, della lunghezza complessiva di circa 260 metri, peraltro di notevole bellezza architettonica. Per ancorare saldamente le fondazioni furono operati ampi sbancamenti fino a raggiungere la solida roccia, sia sul fondo che alle pareti della vallata.
Il motivo del cambio progettuale risiedeva nel fatto che la diga ad archi multipli richiedeva molto meno materiale della ben più poderosa diga a gravità, e dunque oltre al risparmio economico sulle materie prime, si guadagnava anche sui tempi di esecuzione assai più spediti.
Una piccola digressione su due termini che ricorreranno più volte.
La diga a gravità è una struttura solida e massiccia in calcestruzzo, muratura o altri materiali sciolti, la cui stabilità è garantita unicamente dal suo stesso peso. Resiste alla pressione dell’acqua grazie alla sua massa e alla sua forma, che è solitamente più spessa alla base e si assottiglia verso la sommità. La diga a gravità in pianta può essere rettilinea o ad arco.
La diga ad archi multipli è un tipo di diga in calcestruzzo o muratura che utilizza una serie di archi verticali con la schiena rivolta contro la spinta dell’acqua. A differenza di una diga ad arco singolo, che si appoggia sui fianchi della valle, gli archi multipli si appoggiano a una sequenza di robusti pilastri a contrafforte in calcestruzzo disposti parallelamente al flusso del fiume.
La costruzione della diga sul Gleno procedette speditamente, anche scavalcando con disinvoltura le pause imposte dalla burocrazia, nonché i controlli e le verifiche previsti per legge via via che l’opera veniva su.

Ai primi di ottobre del 1923, terminate tutte le rifiniture, la diga fu pronta per diventare operativa. Dalla numerosa documentazione fotografica dell’epoca, possiamo osservare come il livello dell’acqua dietro la diga salisse di pari passo alla muratura e questo non doveva accadere poiché si imponeva alla struttura di iniziare a reggere peso ancor prima che fosse ben assestata. Difatti, ben presto furono segnalate perdite d’acqua, trasudamenti e macchie di umidità, segno evidente che la muratura era permeata di diverse infiltrazioni. I responsabili della costruzione derubricarono queste evidenze come normali e non preoccupanti, che sarebbero scomparse ultimati i lavori.
Il settore più problematico era proprio la congiunzione tra il cosiddetto “tampone”, ovvero la diga a gravità e la sovrastante struttura ad archi, segno evidente che da un punto di vista strettamente edilizio non si era riusciti a sigillare la discontinuità tra le due fasi costruttive. In altre parole, significava che la parte inferiore e quella superiore della diga, nel punto nevralgico dello scarico, non erano sufficientemente saldate tra loro ma solo appoggiate l’una sull’altra.

Il crollo
È l’inizio di ottobre e i lavori sono ormai conclusi, l’invaso viene completamente svuotato per un’ultima ispezione, a conclusione della quale gli ingegneri responsabili stabiliscono che è tutto in ordine e, senza attendere le ufficialità e le autorizzazioni del caso, comandano di procedere con il riempimento.
Verso la metà del mese una violentissima perturbazione si abbatte sulla regione, rovesciando piogge torrenziali che da tutta la valle superiore confluiscono nell’invaso. Con una rapidità impressionante, è il 15 ottobre, l’acqua dietro la diga raggiunge quota 1548 metri s.l.m., ovvero +38 metri dell’altezza della colonna d’acqua, livello mai raggiunta prima e massima portata dello sbarramento.
Le piogge tuttavia non cessano e il 22 ottobre, dopo un vero e proprio diluvio, il lago ha raggiunto l’altezza di +38,20 metri, così che l’acqua inizia a tracimare dai canali a sfioro, posti sul coronamento della diga. Il guardiano fa allora una telefonata urgente per segnalare che l’acqua che esce dagli sfioratori anziché defluire giù nel letto del torrente, rimbalza sulle rocce e torna a colpire la base della diga, rischiando di comprometterne la stabilità.
Il 23 arrivano gli ingegneri che in realtà si compiacciono della situazione, considerandola una sorta di collaudo in situazioni estreme.

In realtà l’incessante tracimazione un po’ preoccupa e allora, sembra follia ma questo accadde, per ridurre il volume dell’acqua in caduta dall’alto vengono applicate delle tavole per diminuire le capacità di scarico degli sfioratori, e questo fino al giorno 30, quando vengono disposte chiusure dell’altezza variabile tra 30 e 50 cm, andando a innalzare il livello del lago a una quota di gran lunga oltre le capacità della diga. Ormai ci siamo.
Il mese di novembre scorre senza evidenze. È la mattina di sabato 1 dicembre 1923, non piove ma il cielo è comunque coperto da pesanti nubi e cade nevischio. Alle 7.15 circa, accompagnata da un forte boato l’intera porzione della diga sopra il “tampone” crolla di schianto e si apre uno squarcio di circa 80 metri dal quale in pochissimi secondi si riversano verso valle 6.000.000 di metri cubi d’acqua.

La massa fangosa si lancia giù nella Val di Scalve, caricandosi di pietre, terra e alberi, aumentando incontenibilmente la sua forza d’urto: le prime frazioni che incontra come Bueggio e Dezzo sono cancellate, altre sono distrutte o risparmiate a seconda di come, per l’orografia della valle, l’acqua rimbalza nelle curve facendo sponda da un lato o l’altro.

Le vittime ufficiali accertate sono infine 359.
L’inchiesta
Successivamente al disastro fu aperta un’inchiesta per accertare le cause del crollo, indipendentemente dalla indiscutibile eccezionalità dell’evento meteorologico. Le testimonianze raccolte restituirono uno scenario raccapricciante, fatto di imperizia, approssimazione e disprezzo delle più elementari norme in campo di edilizia.
Ai molti lavoratori impegnati nel cantiere era stato imposto il silenzio sulle procedure adottate, e le lamentele e le osservazioni erano state soffocate sotto la minaccia del licenziamento. Ma dopo il disastro, vuotarono il sacco.
Più voci riferirono che per velocizzare il cantiere, malta e calcestruzzo erano preparati con mescole approssimative e male impastate; la sabbia, in particolare, che inizialmente veniva trattata con un doppio e accurato lavaggio prima di essere impastata, in modo da pulirla da ogni impurità, fu poi messa in opera dopo un solo e sbrigativo lavaggio, con ancora contenuti argillosi.
In merito alle parti in muratura dei pilastri e dei contrafforti degli archi, fu riferito che le molte pietre venivano buttate dentro il sodo murario senza badare né alla posa ne agli incastri con le altre pietre e i materiali nemmeno venivano pressati; per fare volume poi furono gettati addirittura conglomerati informi, con ampi scarti di terra e robaccia, annegando il tutto con un legante peraltro di pessima qualità.
Infine, molti sospetti caddero anche sul ferro impiegato nelle armature del cemento: chi vide, sospettò che addirittura fossero materiali recuperati dalla guerra, forse usurati e rugginosi. In ogni caso, fu testimoniato che nel medesimo contesto architettonico erano stati utilizzati tondini di ferro di diversa forma e dimensione, con grave pregiudizio della struttura.
Il sabotaggio
Ad aggravare la difficoltà delle indagini, si fece largo il sospetto che la causa del crollo fosse stata un atto criminoso deliberato. Pochi giorni prima del crollo della diga, era stato denunciato il furto dai depositi del cantiere di 75 kg di dinamite in candelotti; dopo la tragedia si insinuò l’ipotesi che fosse stato fatto esplodere proprio il condotto di scarico del “tampone”. Furono condotte due perizie indipendenti sulle macerie ed entrambe conclusero che non c’erano prove sufficienti per escludere l’eventualità dell’attentato, semmai erano state individuate tracce che suggerivano l’ipotesi di un’esplosione. Contestualmente però, conclusero anche che il quantitativo di esplosivo impiegato sarebbe stato largamente insufficiente a causare far saltare l’intera sezione della diga, ma forse, in un contesto di generale fragilità, avrebbe potuto essere la concausa determinante.
Alla fine di tutto, la perizia riepilogativa sancì che a determinare il crollo era stato “un brusco cedimento di fondazione” e la causa ultima e immediata del crollo rimaneva “indeterminata in assenza di elementi accertati”.
Alcuni testi di riferimento
https://it.wikipedia.org/wiki/Diga_del_Gleno
U. Bartisan, Il crollo della diga di Pian del Gleno: errore tecnico?, Mantova 2007

Un pensiero riguardo “Il disastro della Diga del Gleno – 1923”