Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Il contesto storico-letterario e la teoria del “vago e indefinito”
L’infinito di Giacomo Leopardi rappresenta uno dei vertici della poesia romantica italiana ed europea. Fu composto nel 1819, quando Leopardi aveva appena ventun anni, e racchiude in sé l’essenza della sua poetica e la sua visione filosofica del rapporto tra l’uomo e l’infinito.
Per comprendere appieno il significato di questo testo, dobbiamo collocarlo nel contesto del primo Romanticismo europeo, periodo in cui la riflessione sul concetto di infinito era centrale nel dibattito filosofico e letterario e lo stesso Leopardi vi era giunto dopo un processo di maturazione del tutto personale e originale. Difatti, a differenza delle tendenze che provenivano d’Oltralpe, specialmente tedesche, e che puntavano sull’esperienza metafisica e trascendente, l’infinito per Leopardi fu piuttosto una proiezione della mente umana, stimolata dall’esperienza sensibile. A questo proposito, la teoria del “vago e indefinito”, da lui stesso messa a punto a partire dal 1818-1820, è cruciale per comprendere il progetto che si cela dietro L’infinito. Vediamo perché.
Nello “Zibaldone”, Leopardi scriveva:
“All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono.” (30 novembre, 1828)
Ebbene, questa duplicità dell’esperienza umana – la percezione diretta e la sua trasformazione immaginativa – è esattamente ciò che viene descritto in L’infinito: la siepe reale diventa lo stimolo e l’occasione per immaginare “interminati spazi” e da lì avviare un vortice d’immagini e sensazioni sempre più impressionanti.
La poesia
Dal punto di vista formale, L’infinito fu un componimento rivoluzionario per l’epoca. È costituito da quindici endecasillabi sciolti, nei quali in modo estremamente fluido e (apparentemente) quasi informale, si distendono pensieri e percezioni connesse secondo un precisissimo e logico incastro. Il sistematico ricorso all’enjambement (tecnicamente il fluire logico-sintattico del contenuto di un verso nel successivo) crea un effetto di continuità che mima il superamento dei limiti tematizzato nel testo, in altre parole un parallelo formale con il tema centrale del componimento: il rapporto dialettico tra finito e misurato, e infinito.
Tendere all’infinito
È possibile individuare nel testo una precisa progressione che descrive l’evolversi dell’esperienza dell’infinito come un processo articolato in fasi distinte; proviamo a comprenderle.
Esperienza del limite fisico
Il componimento si apre con l’immagine del “colle” e della visione circoscritta dalla “siepe”, elementi reali e concreti che delimitano la vista del poeta. La siepe, in particolare, che “da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” è dunque l’ostacolo che segna il limite alla percezione sensoriale e l’occasione del suo stesso superamento; possiamo affermare che proprio la presenza del limite accende l’immaginazione del poeta che, “sedendo e mirando”, immagina “interminati spazi” e “sovrumani silenzi”. L’esperienza dell’infinito, di per sé, va oltre le possibilità umane, non è per definizione tangibile, eppure prende le mosse proprio dal volontario superamento del limite da parte del poeta.
La progressiva dilatazione delle percezioni porta l’esperienza quasi all’orlo del suo stesso collasso, inducendo paura e smarrimento. Ma prima di questo – e in tutto questo – Leopardi cerca la sua perfetta collocazione: “io nel pensier mi fingo”, scrive. La scelta dei termini è studiata con abilità da cesellatore: fingo in latino significa tanto costruisco (anche figuratamente) quanto e soprattutto plasmo; è il verbo del vasaio, che modella un impasto informe fino a ottenere la figura desiderata. Le dimensioni che intorno a Leopardi si vanno allontanando in ogni direzione lo tirano verso una smaterializzazione che è in realtà vitalizzante; e la materia prima non è la creta ma se stesso, o meglio il suo pensiero nel quale sé e in sé continuamente rimodella.
Andare oltre il limite: la fusione tra spazio e tempo
La dilatazione di cui parlavamo poco sopra sembra consumare la materia stessa, rarefacendola fino a creare una sorta di vero e proprio pericoloso vuoto cosmico, ed è proprio alla soglia di tale assenza che il poeta inanella un nuovo fondamentale aggancio e introduce l’improvvisa pienezza dell’esperienza auditiva del vento che fa stormire le foglie. Il vento, a sua volta, inafferrabile e inarrestabile, diviene formidabile metafora dello scorrere del tempo e del suo perdersi tanto nel passato – le “morte stagioni” – fino al corposo e vivissimo presente: “e mi sovvien l’eterno”; è avventori quindi un passaggio fondamentale dall’infinito spaziale a quello temporale. Il presente, palpabile e pulsante, nella percezione si dilata fino a comprendere l’eternità.
Dissoluzione dell’io nell’infinito
Il processo culmina nell’esperienza ultima del dolce “naufragar […] in questo mare”, metafora della definitiva dissoluzione dell’individualità dell’immensità. Questo naufragio, vale ripeterlo, non è traumatico ma “dolce”, rappresentando una liberazione dai limiti dell’esistenza individuale.
Il romanticismo aveva fatto propria la tradizione del sublime, sul quale aveva proseguito la riflessione. L’esperienza descritta da Leopardi condivide con il sublime kantiano l’idea di un confronto tra la mente umana e ciò che la supera, ma se ne distacca per l’esito di questo confronto: abbandonando ogni velleità e agonismo riposto nella ragione umana contro la Natura per un “dolce” abbandono in essa. Questo ribaltamento del sublime tradizionale è uno degli aspetti più originali e moderni della poetica leopardiana.
Il significato filosofico
L’infinito rappresenta una straordinaria sintesi poetica del pensiero filosofico leopardiano. In questo componimento, Leopardi affronta il tema del rapporto tra finito e infinito, tra determinato e indeterminato, tra realtà dei sensi e immaginazione. La stessa siepe altro non è che la proiezione e l’ostacolo della ragione stessa, che viene a tagliare via lo spazio all’immaginazione e alla fantasia. La ragione, il “funesto dono” nella Natura, come l’aveva già definita Foscolo nella formidabile Lettera da Ventimiglia ne Le ultime lettere di Jacopo Ortis, è venuta a infrangere l’idilliaco equilibrio originario, quando ancora tutto era in armonia, simbiosi ed equilibrio. Il subentrare della ragione ha iniziato a frenare il sistema, rivelando a poco a poco il “vero”. Parafrasando, lo stesso Foscolo dichiarava che conduciamo una vita tanto bassa e cieca da paragonarla a quella dei vermi, ma mentre per loro è la condizione naturale per noi no, e la ragione ci dà ahinoi la facoltà di rendercene conto ma senza alcuna possibilità di affrancarcene.
Da qui, Leopardi elabora la teoria delle illusioni, gli “schermi” che ancora per con qualche scricchiolio domineranno la poesia di Montale, lì per confondere e distrarre. Ma colpo dopo colpo, la ragione li vince e avanza, nonostante i tentativi contrari di Natura, che in questa fase del pensiero leopardiano ancora ha a cuore il bene delle sue creature.
Il “vago e indefinito” altro non sono quindi che cortine nebbiose e sfumate elevate a proteggere noi stessi dall’ineluttabile realtà delle cose, a nasconderne la sconcertante verità. Un processo del tutto analogo a quello evocato da Pascoli, esattamente ottant’anni dopo, precisamente della poesia Nebbia.
In conclusione, paradossalmente, a dispetto delle dimensioni sfuggenti e inafferrabili che descrive, L’infinito di Leopardi ci guida alla più completa compenetrazione con quanto ci circonda. La quasi famelica ricerca del contatto fisico, sedersi a terra, il sentirsi addosso il vento, ingurgitare fino a esplodere la vitalità del presente ci insegna il potere dei nostri sensi, a cogliere ogni sfumatura di colore, ogni emozione, ogni vibrazione attorno a noi; perché niente vada perduto nell’ordinarietà, perché possiamo sempre essere partecipi del tutto.
