ovvero la pietra della (in)visibilità
Calandrino, con l’allegra combriccola di Bruno e Buffalmacco, è senza dubbio uno dei più iconici personaggi del Decameron di Giovanni Boccaccio. Celebre per la sua stoltaggine, è il protagonista di ben cinque novelle: la terza e sesta e nona dell’Ottava giornata, dedicata alla beffa e la terza e la quinta della Nona giornata, a tema libero.
Calandrino, di mestiere pittore, è definito da Boccaccio uomo di “grossa pasta”, la cui “simplicità” lo rendono il perfetto bersaglio per trappole e beffe alle quali lui invariabilmente abbocca a causa della sua completa mancanza di avvedutezza.
A noi interessa la novella di presentazione, la terza dell’Ottava giornata: Calandrino e l’elitropia.
La novella è celebre ma ripassiamo la trama in breve. Avendo saputo della facile preda, Maso del Saggio, personaggio realmente esistito e noto per la sua astuzia e le sue burle, ne organizza una ai danni del nostro Calandrino. Incontratolo, gli fa credere che nel Mugnone, torrente che attraversa Firenze, si trova l’elitropia, una pietra di incredibile virtù, giacché infonde nel suo possessore la dote dell’invisibilità. Calandrino non appena libero da Maso, va a cercare i suoi compagni Bruno e Buffalmacco, i quali ovviamente capiscono subito che si tratta di uno scherzo; ciononostante l’accompagnano in questa baggianata e riescono perfino a fargli credere d’averla trovata, fingendo all’unisono di non vederlo più, mentre lui in realtà si trovi a poca distanza da loro. Calandrino torna a casa con gran ritardo sull’orario del pranzo e viene rimproverato dalla moglie, Monna Tessa. Lui, vedendo allora il suo potere svanito, si accanisce su di lei, pestandola a sangue finché non intervengono gli amiconi e tutti si rappacificano.
Vediamo adesso un pochino più in dettaglio l’analisi del testo.
Il potere della parola in Boccaccio
Boccaccio dimostra qui la sua maestria nell’uso della lingua, giocando con le parole, i suoni e i doppi sensi. La sua narrazione è un universo fantasmagorico che spazia dall’immaginazione più sfrenata a dettagli quasi surreali: accarezza la parola, testandone le infinite possibilità; gioca sui suoni, sui doppi sensi, confonde e manipola. Evoca mondi bizzarri e incredibili come il paese di Bengodi, narrato con dovizia di particolari da Maso, luogo dove le viti si legano con le salsicce e i maccheroni rotolano già conditi giù da una montagna di parmigiano.
Maso utilizza sapientemente l’espediente narrativo della descrizione esotica per catturare l’attenzione di Calandrino: termini come “millanta” – chiaramente non un numero reale – contribuiscono poi all’effetto comico, sottolineando l’ingenuità del protagonista.
Maso riprende sempre più serratamente il racconto, descrivendo le virtuosissime pietre che là si trovano in ogni dove e Calandrino, accalappiato più che mai, domanda di rimando se pure dalle nostre parti se ne trovino di siffatte. Boccaccio raggiunge il culmine di genialità e inventiva: Maso racconta che sì, da noi ci sono due pietre altrettanto virtuose. Le prime sono i “macigni da Settignano” – terra a nord di Firenze celebre da sempre per le ottime cave e gli ottimi scultori e scalpellini che da lì ebbero origine -, tanto prodigiosi che “quando son macine fatti, se ne fa la farina”, fatto di per sé piuttosto ovvio ma che alle orecchie imbambolate di Calandrino suona come macine che quando sono messe all’opera si trasformano esse stesse in farina o comunque prodigiosamente ne producono.
La seconda pietra eccezionale, che si trova proprio a due passi, giù nel greto del Mugnone, è invece l’elitropia la quale, secondo i lapidari ovvero i manuali medievali sulle virtù delle pietre, dona nientemeno che l’invisibilità. Naturalmente Boccaccio, data la natura della sua formazione di estrazione mercantesca, pratica e spiccia, il suo senso pratico e la spiccata dote di acuta osservazione del mondo reale, non prestava alcun credito a queste magiche credenze e dunque dopo aver lasciato Maso a pontificare con magniloquenza della sua condizione di grande esperto, conclude che l’elitropia è una pietra “di troppo gran vertù, per ciò che qualunque persona la porta sopra di sé, non è da altra persona veduto dove non è”, che Calandrino, ingarbugliato più che mai dal discorrere di Maso, intende come “chiunque la porta con sé non sarà visto da nessuno”.
La rivelazione del carattere
Tipico della narrativa di Boccaccio è il rivelare la psicologia e i tratti caratteriali dei suoi personaggi molto gradualmente, lasciandoli agire sulla scena; il nostro caso non fa eccezione.
Appena separatosi da Maso, Calandrino va incontro ai suoi amici e colleghi Bruno e Buffalmacco per condividere con loro il gran segreto, il che parrebbe lasciare intuire una predisposizione alla generosità e solidarietà. I due ovviamente intuiscono al volo il raggiro che c’è sotto e decidono di dar seguito alla beffa per farsi due risate alle spalle dell’amico.
Ciò a cui assisteremo da adesso in poi sarà, anziché il nascondimento, la progressiva e inesorabile rivelazione dei tratti caratteriali di Calandrino che lo qualificheranno come un perfetto mascalzone: disonesto, sprezzante e violento. Altro che invisibilità!
Iniziamo. Mentre Calandrino illustra ai suoi compagni le novità appena apprese, propone, non appena avranno trovato la pietra, di andare subito a svaligiare i banchi dei cambiavalute, sempre ben provvisti di moneta sonante, cosicché, parole sue: “potremo arricchire subitamente, senza avere tutto dì a schiccherare le mura a modo che fa la lumaca.” Premesso che Calandrino soffre sempre il peso del mestiere del pittore, con queste parole sfoga tutto il suo livoroso astio verso la propria professione e verso il guadagno onesto e frutto di fatica. Ci sarebbe dell’altro, ma rimandiamo a un’altra occasione le posizioni di Boccaccio in merito all’ascesa sociale e torniamo al racconto.
Una volta giunti nel Mugnone i tre cominciano a cercare e Calandrino raccoglie sassi a più non posso, anche perché Maso gli ha dato informazioni talmente vaghe che qualunque pietra potrebbe essere quella giusta. E in poco tempo, infatti, si ritrova carico come un mulo.
A quel punto Bruno e Buffalmacco, stanchi della farsa, cominciano a fingere di non vederlo più e lui, convinto di essersi imbattuto nella famosa elitropia, anziché avvisarli si allontana quatto quatto, tenendo per sé l’inestimabile scoperta. Bruno e Buffalmacco continuano la sceneggiata, fingendosi contrariatissimi e lamentando che Calandrino se ne è sicuramente andato da un pezzo, lasciandoli lì come due minchioni, e cominciano dalla rabbia a lanciare sassi verso di lui, fingendo di lanciare a casaccio e “il caso” vuole che tutti lo colpiscano in pieno l’amico; Calandrino sbuffa e sopporta i colpi in silenzio piuttosto che rinunciare all’illusione di essere invisibile.
E così, l’elitropia svela un altro tratto caratteriale di Calandrino: oltre alla disonestà, scopriamo adesso anche la sua disinvoltura a tradire gli amici non appena ritiene che la fortuna gli arrida.
La lapidazione continua fino alla porta della città dove le guardie, preventivamente informate del trucco, lasciano passare Calandrino senza degnarlo d’uno sguardo, e rafforzando il lui la convinzione d’essere invisibile.
Arrivato a casa però succede il finimondo: smascherato dalla moglie, monna Tessa (e secondo la credenza medievale, le donne erano capaci di far svanire ogni virtù), lui si sfoga su di lei, picchiandola con quanta forza gli rimane in corpo (episodio che non rimarrà impunito, giacché la Tessa stessa gli renderà pan per focaccia nella Quinta novella della Nona giornata). Sarà l’intervento di Bruno e Buffalmacco a calmare le acque e rappacificare momentaneamente i due sposi.
Conclusione
La genialità dell’opera di Boccaccio risiede nel trasformare l’elitropia – presunta pietra dell’invisibilità – nello strumento che rivela completamente il carattere di Calandrino. L’oggetto magico diventa antitetica metafora della sua natura: invece di nasconderlo, lo espone totalmente, mettendone a nudo difetti e debolezze.
L’epilogo violento, con Calandrino che picchia la moglie Monna Tessa dopo essere stato smascherato, rappresenta l’ultima rivelazione del suo carattere: la brutalità che si cela dietro l’apparente ingenuità.
Boccaccio crea così un personaggio complesso, che diverte e al contempo disturba il lettore, utilizzando l’ironia come strumento di indagine psicologica e critica sociale.
