Sul canto XXXIV dell’Inferno di Dante Alighieri

Ricordo bene la prima volta che lessi l’ultimo canto dell’Inferno: ne rimasi deluso. Forse definirla lettura è eccessivo: in casa dei miei c’era un’edizione illustrata in tre volumi della Commedia e naturalmente sfogliare le drammatiche rappresentazioni dell’Inferno era più appagante che non le azzurrine visioni paradisiache del terzo volume. Le illustrazioni del canto XXXIV sì, è vero, erano sufficientemente orride ma, per quanto ne capii allora, il testo che avrebbe dovuto raccontare l’incontro con Lucifero in persona non mi parve all’altezza.

Insomma, in questa escalation di malvagità infernale, ancora oggi, mi appare evidente quanto ben più convincenti ed efficaci siano i versi del XIII canto, con i suicidi tramutati in alberi che sanguinano se spezzati e per l’appunto tra loro corrono a perdifiato gli scialacquatori, rompendo e schiantando tutto ciò che incontrano perché inseguiti e invariabilmente ridotti a brandelli da cani famelici; oppure la blasfema violenza e cattiveria di Vanni Fucci (Inf. XXV); o infine, secondo me il peggiore di tutti, quanto viene narrato nel canto XXVIII, con i seminatori di discordia, descritti con dovizia di dettagli mentre sono squartati da un diavolo con uno spadone e dopo che sono passati, e percorrono la IX bolgia grondante di sangue, tra membra fracassate e interiora pendenti; come se tutto ciò non bastasse, intanto che avanzano come possono, a poco a poco le micidiali ferite inferte si risanano in modo che essi siano pronti per un nuovo passaggio sotto il demone.

Cosa dovremmo aspettarci dunque, con queste premesse, dall’incontro con Satana in carne e ossa? Cosa trovare nel più profondo abisso dell’Inferno e nel luogo più lontano da Dio?
in realtà oggi non sono più così deluso. Purtroppo no.

Ma procediamo con ordine e un breve riassunto.

I due poeti continuano l’attraversamento del lago ghiacciato del Cocito; siamo ormai nel fondo dell’Inferno, il nono cerchio, popolato dalle anime dei traditori, le più prossime al Diavolo, quindi le peggiori in assoluto; in particolare siamo nella zona più interna, la Giudecca, dove sono puniti i traditori dei benefattori. Dante ne incontra molti ma non può interagire con nessuno di loro poiché sono completamente immersi e paralizzati dentro il ghiaccio, come pagliuzze nel vetro. Inoltre entrambi i viaggiatori sono investiti da impetuose raffiche di vento gelido, tanto che Dante deve nascondersi dietro la sua guida. Già da lontano, scrutando tra la nebbia e l’oscurità, gli era parso di scorgere un enorme edificio, simile a un mulino; adesso è tutto chiaro: quando Virgilio si sposta, davanti a lui, colossale, si erge la figura di Lucifero. La sua immane corporatura spicca dal busto in su fuori del lago ghiacciato e dietro le spalle si muovono tre coppie di ali membranose che sono anche l’origine del vento, le stesse che all’inizio del canto erano parse le pale del gigantesco mulino.

L’orrendo mostro ha una testa con tre facce (probabilmente l’immagine di una sorta di anti-Trinità), quella centrale rossa, quella destra tra il bianco e il giallo e quella a sinistra scura; in ognuna delle tre bocche viene maciullato il corpo di un peccatore che, dalla spiegazione di Virgilio, apprendiamo essere Cassio dalla parte biancastra e Bruto da quella nera, tenuti entrambi per le gambe e con la testa in giù, mentre al centro, la faccia rossa, viene divorato con la testa dentro Giuda Iscariota. La presenza di Giuda è evidente e scontata, come pure la sua “maggior pena”, in quanto oltre che divorato la sua schiena è completamente spellata dal continuo artigliare di Lucifero. La presenza di Bruto e Cassio, cesaricidi, è dovuta al fatto che nella ideologia storico-politica di Dante l’Impero Romano era stato voluto e concepito da Dio all’interno di un progetto salvifico, anzi, la sua presenza nei secoli iniziali del Cristianesimo era stato un’indispensabile culla perché nella sua unità la nuova religione potesse diffondersi e rafforzarsi tra nuovi popoli. L’assassinio di Cesare, in un certo qual modo, era stato un attentato al Cristianesimo e alla Salvezza.

Senza troppo indugiare, i due poeti si avvicinano, Virgilio prende Dante sulle spalle e si cala giù,  tenendosi al pelo delle gambe di Lucifero fino a raggiungere il centro della terra e da lì, attraverso un condotto naturale scavato da un ruscello di cui si avverte il suono, risalire fino alla superficie “a riveder le stelle” del cielo australe, esatto, dalla parte opposta della Terra rispetto al punto di ingresso dell’Inferno, sulla spiaggia di un’isola nell’Oceano, l’isola del Purgatorio.

Non accade molto di più di questo ma sono le descrizioni a rendere quel luogo pazzesco.

Nelle aree più periferiche di Cocito (Caina, Antenora e Tolomea) le anime emergevano ancora dal ghiaccio, sempre meno, è vero, ma abbastanza da consentire un dialogo. Adesso il paesaggio è completamente vetrificato, spazzato da tre venti gelidi che tolgono il fiato e niente emerge se non Lucifero. La sua figura si eleva incombente quanto isolata, imprigionata dentro lo stesso ghiaccio di cui è origine; quanto fu splendente un tempo, adesso è mostruoso, scrive Dante; la testa è tripartita in facce sui colori delle quali gli esegeti si sono confrontati. Più o meno concordi che la rossa simboleggi l’ira, più oscillanti le spiegazioni delle altre; tra le queste, personalmente preferisco interpretare quella bianco-giallastra come l’invidia e quella nera come l’ignoranza. Per questi stessi tre caratteri Lucifero è stato dannato per l’eternità e adesso i suoi sei occhi versano lacrime che colano giù dai tre menti dopo essersi mischiate con la propria bava e il sangue dei dannati che sta dilaniando.

Satana è dunque in lacrime; paradossalmente gli altri demoni che Dante aveva incontrato scendendo fin là sembravano passarsela meglio, almeno li vediamo sfogare tutta la loro cattiveria e sadismo contro i dannati, e sembrano proprio divertirsi. Ma Satana piange.

Attorno a lui in ogni direzione c’è il vuoto, la terra stessa volle ritirarsi quando precipitò, per non esser toccata da tanto male; e non può parlare perché nelle sue bocche sono ficcati dei dannati, tanto che non si capisce nemmeno più chi sia punizione di chi. Lucifero, Giuda, Bruto e Cassio sono coloro che più hanno attentato al disegno di Salvezza di Dio e adesso condividono una tragica sconfitta. Sono perdenti, impotenti, soli. Tuttavia le lacrime di Lucifero non devono commuoverci perché sono frutto di invidia, rabbia e ignoranza e proprio quest’ultima mi rende quella pena ancor più spaventosa, poiché se è vero che le pene eterne dell’Inferno, quelle transitorie del Purgatorio oppure i premi celesti sono dispensati dalla luce della giustizia divina, significa che Lucifero è punito per un’azione della quale ancora si dimostra inconsapevole e arrabbiatissimo. Più dimessi e afflitti appaiano i tre uomini: Bruto si dimena ma non apre bocca, di Giuda vediamo solo le gambe e Cassio, seppur muscoloso, subisce senza condizioni il suo tormento.

Qual è dunque l’origine di quel pianto?  

La visione demoniaca trasmette un colossale senso di frustrazione, impotenza, rabbia; l’origine di ogni male dell’universo sembra adesso ridotta a una semplice macchina del freddo. È spiazzante, di più: è straniante! I dannati nella bocca di Lucifero sono anche una garanzia che egli non parli: del resto non si parla mai col Diavolo, è una raccomandazione fondamentale di qualsiasi esorcismo perché le sue parole sono un’arma micidiale: hanno persuaso Eva a peccare, hanno blandito Gesù stesso, tentandolo nel deserto, almeno fin quando egli, con la sua autorità, dovrà imporgli il silenzio. Forse è dovuto anche a questo la fretta di Virgilio di allontanarsi al più presto, non senza ancora la raccomandazione di guardare e passare implicita, necessaria lì forse più che altrove:

Ma la notte risurge; ed oramai
è da partir, ché tutto avem veduto (vv. 68-69) 

Sembra quasi che Dante giochi a bordo campo di un gioco pericolosissimo in fondo all’Inferno, cercando di metterci in guardia su quanto possa essere fatale e sottile il confine che ci separa dal male. Non dimentichiamo che appena nel canto precedente, il XXXIII, il conte Ugolino della Gherardesca ha tentato in tutti i modi di commuoverci e portarci dalla sua parte, al punto da, leggendo, farci provare un pungente senso di colpa: espressamente aveva rimproverato Dante “se non piangi, di che pianger suoli?” (Inf. XXXIII, v. 42). Ma non dimentichiamo che Ugolino è lì a due passi, tra i dannati peggiori, e non dovremmo nutrire alcuna empatia per lui. Men che meno per il Diavolo, per quanto possa versare lacrime, per quanto lo vediamo imprigionato o ci paia sottomesso. Il ritratto che Dante fa di Lucifero mi ricorda alcuni film del nostro tempo, dedicati a grandi cattivi del Novecento nei quali i protagonisti vengono tratteggiati nel loro momento di dolore, sembrano travolti dai ripensamenti (se non rimorso). Sto pensando a La caduta, dedicato agli ultimi giorni\ore di vita di Hitler nel bunker oppure al più recente Operation finale, dedicato alla cattura a Buenos Aires di Adolf Eichmann e soprattutto alle sue conversazioni con i carcerieri del Mossad in attesa del momento propizio per tornare a Gerusalemme. Creare empatia di sentimenti; instillare calore contro il gelo del cuore, sciogliere la Giudecca.

Dante riprende il controllo e prepara le mosse per lo scacco matto. L’umiliazione di Lucifero è completa quando lo vediamo ridotto a svolgere mansioni di grottesca scala per consentire la discesa dei poeti ancora più in basso, e la narrazione si tinge di grottesco se non addirittura comico, con Virgilio che si cala portando Dante sulle spalle, reggendosi di pelo in pelo, fino al centro della terra. A questo punto, dopo un’ultima e quasi ridicola visione delle enormi gambe del demone all’insù, il canto conclude, esatto, all’insù poiché ormai Virgilio e Dante hanno superato il centro della Terra e il suo centro di gravità, motivo per cui dopo un momento di confusione disorientamento Dante si rende conto che la percezione di alto e basso sono ormai capovolte. Recuperando le proprie facoltà e la capacità di discernimento (non solo dell’alto e basso ma soprattutto del bene e del male) anche noi ci liberiamo di quella insinuante relazione col male.

Satana e l’Inferno sono quindi alle spalle. 

Tuttavia, merita osservare che, implicitamente, Dante non può uscire dall’Inferno e proseguire il suo viaggio verso la salvezza senza passare sopra il Diavolo fosse un passaggio obbligato. Il Male ha confini netti e stabiliti. “Per me si va nella città dolente”, “attraverso di me si va nella città dolorosa”, aveva letto all’inizio del suo viaggio sulla porta dell’Inferno, attraverso l’oscuro imperatore se ne esce. 

Le simmetrie della Commedia sono eccezionali.



2 risposte a “Sul canto XXXIV dell’Inferno di Dante Alighieri”

  1. Bellissima Nic questa spiegazione dell’ultimo canto dell’Inferno.

    Ho letto ultimamente il libro di Aldo Cazzullo ” A riveder le stelle ” che parla e ben spiega il percorso di Dante nell’Inferno. Finalmente sono riuscita a capire bene i personaggi che incontra e le origini delle loro malefatte.

    Lo conosci questo libro? E se si, cosa ne pensi?

    Ciao carissimo, è stato bello leggerti 🙂

    Piace a 1 persona

    1. Grazie per la tua lettura. Il libro di Cazzullo l’ho visto ma non l’ho letto. A dire il vero mi hanno scoraggiato l’acquisto alcune recensioni. Per me, insuperabili, rimangono i tre volumi (volumoni, uno per cantica) di Vittorio Sermonti. Sono colossali, è vero, ma di una piacevolezza unica, scritti con garbo, brillantezza, efficacia e soprattutto assoluto rigore… e leggerezza.

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