Era il 1995 quando la Lucas Art pubblicò il suo nuovo videogioco The DIG e fu in quell’occasione che l’arte, la miglior narrativa Sci-Fi e i videogiochi si sposarono, dando vita a un’opera eccezionale. Tecnicamente il videogioco è (era, fu…) un’avventura grafica “punta e clicca” nella quale i personaggi devono sopravvivere, risolvere enigmi, raccogliere oggetti e idee per arrivare alla conclusione della storia.

La sceneggiatura
Al momento dell’uscita, la tecnologia, pur coi limiti del tempo, avrebbe potuto garantire standard grafici anche migliori ma non furono sfruttati a vantaggio di una straordinaria bellezza artistica: i fondali, i paesaggi, più in generale le ambientazioni sono degne della tela di un pittore, e non esagero. Lucas produsse un videogioco che doveva catturare come un film (poi torneremo su questo aspetto), immersivo, coinvolgente, affascinante ma soprattutto di spessore, che affrontasse cioè, pur nella finzione fantascientifica, tematiche importanti, come nella migliore tradizione del genere stesso. E ci riuscì.
Lo stesso valse per la colonna sonora, scritta da Michael Land, già autore del memorabile tema (e della colonna sonora) di The Secret of Monkey Island. Ad essere sinceri, in determinati registri la musica risulta un po’ troppo virata sui timbri sintetizzati, ma le 11 tracce di cui si compone restano un’opera di indubbio valore musicale. Perfettamente adeguata alla sceneggiatura del gioco, la musica è dominata da lunghi tappeti di archi o di morbide sonorità elettroniche che evocano atmosfere misteriose e inquietanti.


La storia
Il soggetto fu un’idea di Steven Spielberg, pensato per un episodio TV e poi anche un film, ma l’idea si dimostrò in breve troppo ambiziosa e, dati mezzi tecnologici del tempo, i costi di produzione sarebbero stati insostenibili. Chissà cosa ne verrebbe fuori oggi! Ad ogni modo propose l’idea a George Lucas perché ne facesse un’avventura grafica e lui contattò l’ideatore di The Secret of Monkey Island; la sceneggiatura definitiva fu affidata, dopo qualche peripezia, a Sean Clark. Rispetto a The Secret, The DIG furono accantonati umorismo, sagacia e ironia, a vantaggio di un ampio e serissimo approfondimento filosofico.
L’esordio è dei più classici: un osservatorio nel Borneo individua un asteroide la cui traiettoria lo porterà con certezza assoluta contro la Terra. Le dimensioni del corpo celeste, battezzato Attila, non lasciano dubbi sulla natura estintiva dell’evento. Che fare? Viene organizzata una missione dello Space Shuttle con l’obiettivo di avvicinarsi all’asteroide, piazzare sulla sua superficie tre cariche nucleari e una volta a distanza di sicurezza farle esplodere per deviare il corso di Attila. Membri dell’equipaggio sono Boston Lowe, militare, comandante della missione, Ludger Brink, archeologo e geologo, Meggie Robbins, giornalista ed esperta linguista, Cora Miles, responsabile dei sistemi di bordo e Ken Borden, il pilota della navetta.
Dopo il successo della missione, i primi tre decidono di tornare su Attila per verificare da vicino gli effetti delle esplosioni ma qui trovano una sorpresa: le detonazioni hanno aperto un crepaccio in fondo al quale trovano lastre sagomate in forme geometriche regolari, del tutto impossibili per qualsiasi processo naturale. La loro curiosità li porta a scoprire che sono il varco per un cunicolo verso il centro di Attila, costituito da un’enorme cavità prismatica e purtroppo li porta anche a ricomporre un puzzle attiva l’asteroide, che scopriamo essere in realtà un velivolo spaziale; ultimata l’accelerazione l’oggetto svanirà, per ricomparire in un mondo completamente alieno. E qui inizia la sezione principale del gioco.
Le varie sequenze si compongono di missioni esplorative, riparazione e riattivazione di macchinari non più funzionanti, il tutto senza il benché minimo indizio di cosa fare. L’obiettivo è uno solo: tornare a casa, ma all’inizio non si ha la pallida idea nemmeno di cosa ci sia attorno. Di tanto in tanto, quando siamo in un vicolo cieco e senza opzioni ecco che si manifestano delle apparizioni che coi loro movimenti e con le loro figurazioni ideografiche comunicano preziosi indizi sul da farsi per proseguire l’indagine. Chi sono questi fantasmi? Dentro la loro consistenza incorporea e vagamente luminescente si intravede fugacemente la forma dell’essere che fu un tempo e subito si ha la percezione della necessità di un contatto maggiore.
Immediatamente il giocatore (e i personaggi), percepisce con chiarezza che ogni luogo, stanza, strada, piazza è completamente deserto e in rovina, il che trasmette un senso di inquietudine e di pericolo costante. Il servizio di trasporto funziona ancora e così è possibile spostarsi da una parte all’altra di questo mondo che si compone di una serie di isole disposte attorno al luogo dov’è atterrata la nave-asteroide, ma dalle stazioni in poi è tutto da esplorare e comprendere. È altrettanto chiaro che i protagonisti si trovano di fronte ai resti di una civiltà che prima di scomparire raggiunse livelli altamente tecnologici e dovranno imparare a comprenderne i segni, la strana scrittura basata su ideogrammi luminosi, i meccanismi e poi, alla fine, la storia.
I temi di The DIG
Al solito, non voglio rivelare troppo della trama, anche se dubito che il gioco, pur trovandolo, sia ancora compatibile coi computer del nostro tempo. Ad ogni modo, la storia tocca argomenti molto sensibili quali la morte e la sua accettazione, il rifiuto del corpo come pesante crisalide, il progressivo rifugio nella tecnologia a discapito della umanità (si può dire anche per gli alieni?), il respingimento di ogni idea di limite, l’auto-annientamento.
Ognuno dei tre personaggi evolve durante il gioco in termini di consapevolezza e di fronte a questo arricchimento le reazioni sono molto distanti poiché non tutti sono capaci di gestire l’impatto con la diversità: la conquista tecnologica non è graduale e i protagonisti si trovano a gestire strumenti e infine un potere che non hanno conquistato ma semplicemente, si fa per dire, ereditato e questo li rende in misura diversa dipendenti da questa forza prorompente e vulnerabili. Ancor prima di trovare la via di casa, Boston, Ludger e Maggie dovranno ritrovare loro stessi, cercando di sfuggire alle tentazioni nelle quali si sono perduti coloro che li hanno preceduti sul quel mondo crepuscolare. Quando, alla fine, verranno a conoscenza dei fatti, scopriranno che proprio questo è l’aggettivo migliore per descrivere la società di un tempo: millennio dopo millennio sempre più fiacchi e stanchi, sempre più insensibili, sempre più evanescenti nelle loro elucubrazioni autoreferenziali e infine prigionieri senza scampo nella loro dimensione parallela.
Infine, per celebrarne l’avvincente trama, due anni dopo l’uscita del gioco, The DIG divenne un romanzo, grazie alla penna dello scrittore Alan D. Foster.
In conclusione, The DIG fu, è e rimane un’opera d’arte; ma la storia è più complicata di così, e difficile anche da sbrogliare.
Incontro con Rama e Eon: i due illustri predecessori
Nel 1972, il grande maestro della fantascienza Arthur C. Clarke scrisse il romanzo Incontro con Rama (titolo originale Rendezvous with Rama) nel quale raccontava di un asteroide dalla forma oblunga, ribattezzato Rama, proveniente dalle profondità siderali e in transito nel Sistema solare ma purtroppo diretto verso il Sole. Sulla terra viene deciso di tentare una manovra di avvicinamento con una nave spaziale già in viaggio che riesce appena in tempo a raggiungere l’asteroide, entrare al suo interno e scoprire che in realtà è completamente cavo e in pratica si tratta di un veicolo spaziale, come in effetti da tempo si sospettava, con tanto di città metropolitane, ma tutto completamente deserto, con ogni edificio sigillato e impenetrabile. In giro vi sono creature automatiche che sembrano sovrintendere alla manutenzione ordinaria del luogo, del tutto indifferenti alla presenza dei visitatori. La spedizione dovrà tuttavia abbandonare in fretta Rama a causa del progressivo surriscaldamento dovuto all’avvicinarsi al Sole e tornare sulla Terra senza risposte e con molte domande.
Nel 1985 poi lo scrittore Greg Bear pubblicò Eon, altro caposaldo della fantascienza statunitense (un po’ svilito da una traduzione italiana di medio livello, nell’edizione del 1987, o forse da un punto di vista strettamente qualitativo non è il massimo nemmeno l’originale, non lo so) e altro film mancato. Questa la trama: un grande asteroide lungo centinaia di chilometri è in rotta di collisione con la Terra, dopo l’allarme iniziale si scopre che il corpo celeste compie una ‘manovra’ che lo pone in orbita stabile attorno al nostro pianeta. Inizia l’esplorazione del suo interno, che si compone di sette gigantesche camere cilindriche sulla parete di alcune delle quali sorgono i resti di due grandissime metropoli. L’arrivo del Sasso coincide con un momento di massima tensione fra USA e URSS e ne consegue una fatale escalation che scatenerà sulla Terra una guerra nucleare totale e sull’asteroide una feroce battaglia per la sua conquista. Sanate lassù le dispute e trovato l’accordo fra invasori sovietici e occupanti in larga misura statunitensi ed europei, inizierà l’esplorazione del Corridoio ovvero di un corridoio senza fine che apparentemente ‘esce’ fuori dal Sasso inoltrandosi in una dimensione spazio temporale differente.
Veniamo al dunque: sul Sasso esistono due megalopoli, una abbandonata in tempi antichi, una, ancora più grande, in tempi più recenti. Appare inequivocabile che quello sia un mondo umano, che un tempo fu popolato da umani. Ma dove sono finiti tutti? Nel Corridoio è ovvio, ma come, quando, perché? L’equipe scientifica, con la scorta di migliaia di militari (esclusi i Russi, da qui la contesa), è composta da linguistici, matematici, fisici, archeologi, storici e via dicendo che periodicamente si ritrovano per condividere le scoperte. Oltre a questo, diversi testimoni, tutti rigorosamente attendibili, hanno fatto rapporto di contatti con entità evanescenti che appaiono fugacemente con un refolo di vento. Già a questo punto, i contatti con The DIG appaiono evidenti; ma c’è di più: dopo numerose peripezie i protagonisti terrestri della storia, addentrandosi nel corridoio con un velivolo, riusciranno a entrare in contatto con una nuova città, Axis City, nella quale vivono ‘gli altri’, ovvero i precedenti abitanti del Sasso, il cui nome originario si scopre essere il Thistledown e il Corridoio la Strada. ‘Gli altri’ sono gli eredi degli abitanti della Terra che avevano costruito l’asteroide ed erano partiti grazie a… – va be’, non voglio svelare la trama che tocca comunque tutti i temi tipici degli universi paralleli, in particolare l’entrare in contatto col proprio doppio di un universo nel quale le cose sono andate diversamente – erano partiti insomma migliaia e migliaia di anni prima e adesso erano tornati nel nostro universo e nel tempo presente. Nel frattempo però sono divenuti pure entità intellettuali, prive della necessità di un corpo che utilizzano solo per mettersi in contatto e interagire col mondo reale, chiamiamolo così. Infine, il loro modo di comunicare avviene tramite il pensiero oppure attraverso ideogrammi luminosi che proiettavano davanti a sé grazie a un particolare dispositivo indossato al collo. Come in The DIG, la storia si conclude con un ritorno a casa dei protagonisti, o meglio, mi correggo: con un loro ritorno sulla Terra.
Tirando le fila, Steven Spielberg iniziò a rendere nota questa idea – a quanto se ne sa – per un episodio di una serie TV dal titolo Amazing Stories che andò in onda dal 1985 al 1987 ma in quello stesso 1985 Bear pubblicò il suo Eon, a sua volta debitore del Rama di Clarke, almeno nel suo nucleo centrale.
A noi rimangono in eredità tre opere di indubbio valore: il romanzo di Clarke, il romanzo di Bear e il videogioco della Lucas; in più, come bonus, il romanzo di Foster. Tra loro ci sono molti anelli in comune, al limite del plagio, diciamolo pure onestamente, ma preferisco vederle l’una come il miglioramento della precedente, facendone tesoro e prendendone il meglio. Chi vince? Chi può dirlo, ma ognuno di voi potrà tentare la propria graduatoria.
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