Il treno ha fischiato è una delle novelle più note di Pirandello. Fa parte della raccolta Novelle per un anno, il progetto incompiuto del grande maestro siciliano e affronta uno dei temi più cari all’autore, ovvero l’insostenibile peso che la vita moderna ci scaraventa sulle spalle fino a distruggerci.

Prima di iniziare, è necessario però un piccolo passo indietro; nel suo saggio L’umorismo Pirandello dichiarava che la vita è un… lasciamo a lui la parola:

“La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi. Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo […]. In certi momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente; e anche quello che non scorre sotto gli argini e oltre i limiti, ma che si scopre a noi distinto […], in certi momenti di piena straripa e sconvolge tutto.”

Quindi “la vita è un flusso” incessante di eventi che noi uomini, per nostra inclinazione naturale, vorremmo bloccare e fissare in una forma che ci sia gradita. Ma sotto questa apparenza di superficie immutabile le tensioni crescono incessantemente e prima o poi lacerano il tessuto della nostra maschera, lasciandoci devastati come una campagna inondata da uno straripamento.

Con questa premessa indispensabile, iniziamo, anche se dobbiamo fermarci subito alla prima parola: “Farneticava.” Così si apre il racconto, senza altre connotazioni. A poco a poco il quadro si arricchisce di confuse informazioni: si capisce che siamo di fronte a un caso clinico ma ancora non sappiamo niente del malato o del contesto, niente di niente. Solo alla fine del primo disordinato accalcarsi di voci compare il nome del farneticante personaggio: Belluca. Allora il narratore frena la concitazione dell’esordio e rimette in ordine i fatti. 

In breve: la novella ha per protagonista il signor Belluca, un contabile sempre puntuale al lavoro, attento e mansueto; il suo rigore è tale al punto da lasciare intendere che il suo intero mondo si esaurisca tra montagne di computisteria da espletare entro il termine della giornata lavorativa. In ufficio, scopriamo che la sua dedizione è ripetutamente occasione di ludibrio per i colleghi, dai quali è continuamente angariato, ovviamente approfittando della sua quasi innaturale mansuetudine; addirittura, talvolta questi scherni si erano spinti ben oltre il limite tollerabile, al solo scopo di vedere se una buona volta fossero riusciti a estorcergli una qualsiasi reazione. Niente! Eppure, il giorno precedente, quando veramente si meritava il rimprovero del capoufficio per essersi presentato in ritardo, Belluca gli si era rivoltato contro, assalendolo. Il resto lo sappiamo: aveva iniziato a farneticare di un treno che aveva fischiato nella notte e affermando che lui stesso aveva viaggiato su quel treno fino alla Siberia e poi in Congo; e per questo era stato internato.

A questo punto, Pirandello gioca una carta da maestro, lasciandoci scoprire che il narratore, fino a quel momento a logica un narratore esterno, è in realtà parte integrante della storia, ovvero si tratta di un conoscente di Belluca che assumerà il ruolo di narratore-testimone, attivo e in un certo qualmodo risolutivo nella vicenda. E questa è la ragione per cui mi sono soffermato sul verbo iniziale: perché la società ha da tempo catalogato il povero signor Belluca, l’ha chiamato col nomignolo di Casellario ambulante, o peggio ancora di Circoscritto, sottolineando la sua indole remissiva della quale tutti si sono approfittati fino a chiuderlo in un recinto di oppressione. Farneticava; non c’è altro da aggiungere, è più che abbastanza e per questo i colleghi vanno a visitarlo con una curiosità malsana, fingendosi partecipi: “volevano sembrare afflitti”, si prende la briga di specificare Pirandello.

Non mi viene in mente, per la letteratura del primo Novecento, un tema più potente della descrizione degli sconvolgenti effetti operati dalla società moderna in termini di fatica, orari inumani, stress, psicosi, abusi, spersonalizzazione, depressione, sequenze interminabili di piccoli e grandi traumi che inevitabilmente portano a un totale crollo della persona, sia fisico che psicologico. Già dalla seconda metà dell’Ottocento, era chiara la tendenza verso ritmi via via crescenti, raggiungendo vertici fino ad allora sconosciuti e innescando un fenomeno definito come darwinismo sociale, ovvero una rilettura del darwinismo classico secondo il quale chi non stava al passo coi tempi era selezionato per l’estinzione, qua in termini di messa al margine ed esclusione dalla società; come se non bastasse, l’esuberanza futurista degli inizi del Novecento aveva esaltato la velocità fino all’autodistruzione, facendone un mito. Infine, di pari passo, si completava la massificazione della società, la standardizzazione dei modelli e degli stili di vita, nonché l’inquadramento di ciascuno all’interno del grande e precostituito ciclo produttivo. Come dimenticare le sequenze (un po’ più tarde, ma non di molto) di Charlie Chaplin catturato dentro gli ingranaggi della macchina di cui è schiavo nel film Tempi moderni (1936)?

Grazie al ‘nuovo’ narratore scopriamo così un altro Belluca, fino ad allora rimasto invisibile dietro la maschera del Circoscritto, colui che a casa – con la moglie, la suocera e sua sorella tutte cieche (e in buona misura bisbetiche), le figlie abbandonate dai mariti con i figli – doveva arrotondare lo stipendio copiando i documenti finché non ci cadeva sopra spossato, a notte fonda. “Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi…”: questa era la vita di Belluca fuori dall’ufficio. “Allora andava a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato […] da cui ogni mattina si levava a stento più intontito che mai.”

Ma la notte prima era accaduto l’inimmaginabile: prima di addormentarsi aveva sentito un treno fischiare in lontananza e questo aveva lacerato il pesante sipario che lo separava dal mondo. Be’, è quasi superfluo ricordare lo strappo nel cielo di carta del teatrino delle marionette citato ne Il fu Mattia Pascal e del resto, lo stesso Pirandello si esprime qui in questi stessi termini: “Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di tutte le quelle sue orribili angustie”. 

Ma il dramma di Belluca è il rendersi conto di non essere affatto pazzo e difatti, a coloro che lo credevano: “- Magari! – diceva – Magari!” e in un certo qual modo si era sentito ancora circoscritto ma con la consapevolezza che “s’era dimenticato da tanti anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva.” La notte prima era stato raggiunto il punto di rottura degli argini, e il flusso inarrestabile della vita era straripato, riconquistando disordinatamente i suoi spazi naturali. Tutta la vita che aveva chiuso fuori in quel momento “gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito.”

Prosegue il narratore: “Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. […] Era ancora ebro della troppa aria. lo sentiva.”

Come si conclude la novella? In questa fase della sua poetica, siamo nel 1914, Pirandello intravedeva ancora una possibilità di recupero dopo lo shock; certo, dopo il travaso violento non era pensabile tornare la stessa persona di prima e il docile Belluca stesso si faceva spazio attorno, affermando che si sarebbe ricomposto, si sarebbe scusato col capoufficio e si sarebbe ricondotto nuovamente al suo universo di computisteria ma, condizione non negoziabile, il suo capufficio non poteva “pretender troppo da lui, come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia… oppure… nelle foreste del Congo”.

Sono diversi i temi fondamentali di questa novella. La cornice, chiamiamola così, è disegnata dalla “trappola” sociale, nella sua forma più completa, ovvero che imprigiona tanto nel lavoro quanto nella famiglia; anzi, la seconda anziché luogo e momento di rifugio e ristoro costituisce il colmo della misura. Il tema della follia appare in questa novella ancora ‘immaturo’, se così vogliamo definirlo, rispetto alla forma che si completerà in Uno, nessuno e centomila o nell’Enrico IV, opere nelle quali non ci sarà più alcuna possibilità di rientro nella vita precedente.
In realtà fra la novella, il romanzo e il dramma c’è un’abissale differenza proprio in merito alla definizione qualitativa della follia e al suo ruolo nella narrazione: l’aspetto comune è la maschera da folle che la società con eccessiva disinvoltura getta addosso ai disgraziati protagonisti, alcuni dei quali, indubbiamente, ci mettono del proprio per indurre gli altri a questa sbrigativa conclusione. La società li ritiene folli al punto da rinchiuderli (in un modo o in un altro) perché non nuocciano né a sé, né (forse soprattutto) agli altri: Belluca ha aggredito il suo capoufficio, Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila, viene interdetto dai suoi uffici su richiesta dei famigliari perché con le sue stramberie non mandi a rotoli il patrimonio e infine, nell’Enrico IV, il protagonista viene scrupolosamente custodito nel mondo di fantasia che si è creato dopo un incidente, intanto che alle sue spalle si consumano le tresche e i tradimenti.

Ma il punto di uscita è diversissimo perché col tempo Pirandello spingerà fino alle estreme conseguenze le proprie sperimentazioni narrative: Belluca torna, con qualche condizione in più, al suo posto di lavoro, gli altri due no: Enrico IV, sebbene rinsavito, preferirà continuare la finzione che va avanti da anni e anni, perché solo in essa può illudersi di avere ancora un ruolo, il rispetto e una personalità riconoscibile; per quanto tutto sia pateticamente fittizio, è meglio che il niente. Con un passaggio ulteriore, Moscarda si spinge ancora più in là e la follia diviene un volontario distacco non soltanto dalla realtà, vera o finta che sia, ma perfino da se stesso: ogni giorno rinasce nuovo, pulito, immerso nella natura delle cose che lo circondano ma senza legarsi a niente, senza lasciarsi toccare da alcunché. Solo così può evitare di inciampare nuovamente nelle stesse trappole. Lascio la conclusione alle parole di Vitangelo Moscarda:

“E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni. […] muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori.”

8 pensieri riguardo “Il treno ha fischiato, Luigi Pirandello

  1. I racconti, le storie di Pirandello, lasciano sempre un finale ambiguo, pirandelliane , appunto!!! Certo che la sua conoscenza dell’animo umano, delle sue debolezze, è veramente infinita. Fece tesoro per ogni esperienza di vita come quella del lavoro giovanile col padre.

    Esperienze ed emozioni che ha saputo riportare nei suoi scritti.

    Grazie per la bella ed esaustiva spiegazione di questa novella di Pirandello. Non ero mai entrata così a fondo in un suo scritto. Mi hai fatto fare un interessantissimo viaggio nell’animo umano. Grazie ancora Nicola!

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  2. E’ vero, nelle opere di Pirandello succede spesso che le persone gettino addosso a qualcuno un’etichetta infamante. Come hai detto tu lo fanno con eccessiva disinvoltura, non rendendosi conto che quel giudizio lapidario (che peraltro spesso non corrisponde alla verità o le corrisponde solo parzialmente) può rovinare la vita della persona che lo subisce.
    A rendere particolarmente tragica questa situazione c’è il fatto che quest’etichetta, oltre ad essere immotivata o esagerata, è anche impossibile da staccare. Pensiamo ad esempio al romanzo “L’esclusa”: nel momento in cui a Marta viene affibbiata l’etichetta di adultera, lei non ha nessun modo di discolparsi. Anche se è totalmente innocente, ormai la comunità l’ha marchiata a fuoco, e lei non potrà più liberarsi di questo marchio d’infamia. O meglio, in un primo momento lei si illude di potersene liberare trasferendosi dove non la conosce nessuno, ma poi il destino la riporta al punto di partenza, proprio perché secondo Pirandello è impossibile staccarsi di dosso l’etichetta che gli altri ci affibbiano e la sorte che ne deriva.
    Ne consegue che un altro tema di questo romanzo (anzi, di Pirandello e della letteratura del 900 in generale) è l’incomunicabilità, intesa come impossibilità di comunicare gli uni con gli altri, perché ognuno tende a farsi una propria idea sui fatti e sulle persone, e una volta che quell’opinione si è formata diventa subito dura come la roccia: niente può più scalfirla, perché chi se l’è fatta non è disposto a metterla in discussione.

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    1. Sono totalmente d’accordo. Aggiungo che proprio l’incomunicabilità, quale tema dominante della letteratura del Novecento, è quello che più mi cattura, mi pare quasi una sorta di meta-letteratura: la letteratura che si sforza di gettare ponti e congiungere rive che non possono essere connesse, anche attraverso se stessa. È uno dei punti forti di Lem, che come sai, adoro. Grazie per il tuo commento

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      1. In realtà ignoravo la tua passione per Lem. Anzi, ti faccio una confessione ancora più clamorosa: ignoro proprio chi sia questo Lem! 🙂 Facci sopra un post divulgativo: dato che lo ami così tanto, sono convinto che ti verrebbe benissimo. Grazie a te per la risposta! 🙂

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